venerdì 30 gennaio 2015

"Pensieri"


Osservatore attento e curioso, fine indagatore nonché gentleman, esperto di analisi sociale, figlio illustre della sua epoca. Giacomo Leopardi (1798-1837) è stato anche questo. Nei "Pensieri" (originariamente inseriti nelle "Opere minori approvate" compilate dal Moroncini nel 1931) raccolti e curati dall’emerito Cesare Galimberti (1928), c’è il Leopardi quotidiano, mondano, che guarda i suoi simili e li descrive raccogliendoli in tipi: v’è il mascalzone, il cittadino, il malato, il rustico, il giovane, l’ignorante, il virtuoso, il ricco, il timido, il celebre, il misantropo, il povero. E spesso ogni osservazione leopardiana va a confrontarsi con l’archetipo donnesco. È superbo Leopardi quando afferma, nel XXIV pensiero, che «chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia. Ancora in questa parte il mondo è simile alle donne: con verecondia e con riserbo da lui non si ottiene nulla» (questa citazione verrà utilizzata da Carmelo Bene come epigrafe al suo "Sono apparso alla Madonna" del 1983) oppure quando nel LXXV sostiene che «il mondo è, come le donne, di chi lo seduce, gode di lui, e lo calpesta». Il recanatese, assurto ad emblema del romanticismo ottocentesco, mostra in queste pagine il suo volto meno aulico; capriccioso e campanilistico, Leopardi afferma nel I pensiero che «il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi», e nel IC che «io conosco città di provincia colte e floride, che sarebbero luoghi assai grati ad abitarvi, se non fosse un’imitazione stomachevole che vi si fa delle capitali, cioè un voler esser per quanto è in loro, piuttosto città capitali che di provincia». Negli ultimi lustri, la cultura italiana sta riconoscendo a Giacomo Leopardi, con colpevolissimo ritardo, le virtù poetiche che gli sono proprie e che erano invece note ai più lucidi estimatori del buongusto italico. Non solo l’opera e il pensiero leopardiani, bensì la sua stessa esistenza fu l’emanazione artistica del vivere romantico in un tempo in cui l’illuminismo stava passando le consegne al nazionalismo tanto che l’Italia, patria par excellence del conte, se per il volgo era soltanto un vago sentore, ad un cor gentile - genuinamente italiano - appariva già chiara ed identificabile.

Giacomo Leopardi (1982), Pensieri, a cura di C. Galimberti, Adelphi, Milano, pp. 187

mercoledì 28 gennaio 2015

"Nudi e crudi" e "La cerimonia del massaggio"


Chissà perché siamo portati a credere che in un romanzo scritto da un maschio in cui vi sia raccontato un matrimonio il protagonista debba necessariamente essere il marito. L’eccezione che conferma la regola la troviamo in "Nudi e crudi" dell’inglesissimo Alan Bennett (1934), nel quale la vera protagonista è la moglie, Mrs Rosemary Ransome. Una vita matrimoniale arida, a cominciare da Donald, figlio mai concepito; passioni al lumicino, qualche peccatuccio piccolo-borghese e un’attività sessuale praticamente inesistente. I Ransome non ricevono mai ospiti in casa, sono abitudinari e misantropi, persino nei loro rapporti intimi. La passione pubblica del marito, Mozart; quella privata, la pornografia. Rosemary trascorre invece le sue giornate nella speranza che qualcosa, chissà cosa, accada, proprio come certi anziani quando devono sbrigare mansioni che esulano leggermente dall’ordinario. Fatto sta che i due benestanti e sconfortanti coniugi (il marito Maurice è valente avvocato) si ritrovano gettati in una sorta di universo parallelo dopo il misterioso furto dell’intero mobilio di casa. L’appartamento diviene deserto, come deserta appare l’esistenza di questi due esemplari di homo oeconomicus. Il libro di Bennett, modellato col tipico registro umoristico britannico, è costruito perlopiù sulla denuncia e successiva ricerca degli arredamenti di casa Ransome ad opera dei due protagonisti che, all’occorrenza, si trasformano in qualcosa di diverso da ciò che erano. Maurice, come in un sogno da cui è impossibile svegliarsi, si impunta sul dozzinale impianto hi-fi che l’assicurazione non intende risarcirgli; Rosemary, d’altro canto, coglie l’occasione del furto per incollare un nuovo significato alla propria esistenza. Ma quale ripartenza potrà mai esserci finché il marito continuerà ad obnubilare la legittima aspirazione della moglie ad una vita diversa? Ecco, è necessario che qualcuno muoia. Meno drammatica e ancor più sarcastica la vicenda del terapista gigolò de "La cerimonia del massaggio" (2000): la scena è quella di una funzione religiosa in memoria del caro estinto, dal quale tutti, a partire dal parroco, hanno ricevuto massaggi speciali. Anche qui l'umorismo nero di Bennett trasforma qualcosa di sacro e convenzionale in qualcos'altro, che non è mera provocazione, visto che il ministro anglicano Jolliffe sembra alimentare il proprio vizietto in sagrestia anche dopo la dipartita del massaggiatore. Alan Bennett, come molti illustri colleghi e compatrioti, si serve del comico per raccontare il drammatico, senza giungere mai al tragico, quel presente assoluto fin troppo nobile per questi uggiosi personaggi.

Alan Bennett (2001), Nudi e crudi, trad. di G. Arborio Mella & C.V. Letizia, Adelphi, Milano, pp. 95
Alan Bennett (2002), La cerimonia del massaggio, trad. di G. Arborio Mella & M. Rossari, Adelphi, Milano, pp. 95


martedì 27 gennaio 2015

"Sette brevi lezioni di fisica"


Come tanti italiani che si trovano fuori patria per perseguire degnamente obiettivi accademici, Carlo Rovelli (1956), fisico teorico residente a Marsiglia, tra i fondatori della loop quantum gravity, ha presentato per Adelphi queste "Sette brevi lezioni di fisica" che vanno ad espandere quanto sinora pubblicato sulla Domenica del Sole 24 Ore. Con linguaggio semplice e mai banale, Rovelli illustra quelle conoscenze che hanno stravolto il Novecento, rendendolo il secolo della fisica: dentro c’è la teoria della relatività generale di Albert Einstein (1879-1955), la meccanica quantistica di Niels Bohr (1885-1962), l’architettura del cosmo da Anassimandro al telescopio Hubble, le particelle elementari, le stelle di Planck, la teoria del calore dei buchi neri di Stephen Hawking (1942), ed infine l’essere umano, centro pensante di questo universo e curioso osservatore di quanto accade attorno a lui. Da queste striminzite ed illuminanti lezioni emerge la constatazione che non solo il genio, bensì la scienza tutta, si nutre di dubbi ed esitazioni. In aggiunta, le doti divulgative dell’autore fanno sì che le inestimabili scoperte scientifiche nel campo della fisica siano passo passo accompagnate da rimandi poetici e filosofici (Lucrezio, Baruch Spinoza, Dante, James Joyce, Martin Heidegger ecc.) svelandole per quello che in effetti sono: opere d’arte. Ai profani della scienza questo libriccino farà strabuzzare gli occhi, come i fuochi d’artificio nelle iridi dei bimbi; le sette lezioni di Carlo Rovelli dimostrano che tutti hanno possibilità concreta di capire le cose.

Carlo Rovelli (2014), Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, pp. 88

domenica 25 gennaio 2015

"Una famiglia di patrioti"


Si sente dire da più parti, a mo’ di rimprovero, nei salotti televisivi, nelle università, nelle chiese, in famiglia, che i valori sono andati perduti. Quel che non si sente dire è a quali valori si fa riferimento. Uno di questi è certamente la modestia, in un mondo sovrastato dalla necessità di specializzarsi, dove ognuno è esperto di qualcosa e su quel qualcosa non intende sentir ragione ulteriore. Questo imperativo sociale è ben condensato nell’ormai celebre battuta de "La grande bellezza": «È così triste essere bravi… si rischia di diventare abili». Ciò apparirà ancor più vero dopo aver letto "Una famiglia di patrioti" (1927) di Benedetto Croce (1866-1952). L’autore presenta in questo libro le diverse anime della famiglia Poerio e come queste abbiano, ognuna a modo suo, aiutato e difeso la causa italiana. Di tutti i ritratti eseguiti dal Croce, a colpire maggiormente la sensibilità è quello di Carolina Sossisergio (1778-1852), madre di Alessandro Poerio (1802-1848), donna di intenso afflato patriottico. In una lettera inviata al generale Guglielmo Pepe (1783-1855) in vista della pubblicazione del suo libro sulla campagna del 1848-49, nel quale il militare avrebbe certamente reso gloria al caduto Alessandro, donna Poerio prega Pepe di non esagerare sulle virtù del figlio ed anzi lo invita a non attribuire un’immeritata lode al figlio «che nulla fece di grande fuorché immolarsi alla causa che aveva sposata». Se andiamo a confrontare le austere ma nobilissime parole di Carolina Poerio con quelle di un qualsiasi necrologio odierno, notiamo una notevole distanza in termini di modestia: dove prima predominava l’umile e devota riconoscenza al defunto, cercando quindi di edulcorarne gli altissimi meriti (pur in presenza d’una piissima famiglia), oggi predomina una totale assoluzione di qualsiasi nefandezza compiuta in vita. Dopo la morte di una celebrità, alle cerimonie funebri, nei telegiornali, tra la gente comune, si sente parlare del defunto in termini eccellentissimi, riverenti e deferenti, come se il vuoto lasciato dal morto fosse davvero incolmabile da altro essere umano. Suvvia signori, nessuno vale più di quel che è! Ed allora cerchiamo di riscoprire il sacro valore della modestia, senza urlare più degli altri, senza l’agonismo delle specializzazioni, senza la rincorsa alle onorificenze. Come dice una massima del poeta latino Giovenale: «Rara est adeo concordia formæ atque pudicitiæ».

Benedetto Croce (2010), Una famiglia di patrioti. I Poerio, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano, pp. 179

venerdì 23 gennaio 2015

"Il duello"


Giacomo Casanova (1725-1798) è celebre per le passioni amorose che scatenava, per il fascino che esercitava sul gentil sesso e per lo charme con cui si adoperava nella sottilissima arte del corteggiamento amoroso. Tutto questo è contenuto nelle sue "Memorie", scritte dal 1789 in poi. Ma c’è un libello, scorrevole e intrigante, pubblicato da Casanova nel 1780 per ristabilire la verità su un fatto di cronaca che lo coinvolse in prima persona ai tempi in cui soggiornava presso la corte di Varsavia e sul quale venne effettuata una malevola e faziosa disinformazione ante litteram: "Il duello" nasce proprio così. È la storia di un offesa lanciata e ricevuta tra due galantuomini, il Casanova da un lato e il conte Franciszek Ksawery Branicki (1730-1819), gran panattiere del re, dall’altro. L’oggetto dell’insulto - ovviamente una donna maliziosa - scompare subito dal racconto, per lasciar posto alla minuziosa cronistoria del sanguinoso duello e di ciò che avviene dopo. I due contendenti pianificano l’ora e il luogo del duello con grande riguardo, attraverso una circonvoluzione di cortesie e convenevoli di cui oggi s’è smarrita l’abitudine. Entrambi feriti, al termine dello scontro, i due non rinunciano al codice cavalleresco, anche se l’intervento di personaggi terzi, più vili che cortesi, costringeranno Casanova ad una degenza segreta e, in seguito, a lasciare definitivamente la corte polacca. Malgrado ciò, un gazzettiere di Colonia, basandosi su una lettera tendenziosa, difforme non di poco dalla realtà della cronaca, scriverà un articolo decisamente ostile al nostro, tanto che Casanova lo costringerà, con le minacce e con la forza, a correggere quell’infame gazzetta. Se sentì l’urgenza di mettere nero su bianco la propria versione dei fatti, significa che Casanova aveva necessità di ribadirla, sgombrando la strada da qualsiasi illazione o maldicenza. Ma "Il duello" è anche questo: una finestra spalancata sull’Europa di fine XVIII secolo, sull’aria che si respirava a corte, sul declino ormai inarrestabile della cavalleria e su alcune forme umane che ieri come oggi paiono soverchiare tutto e tutti: i mezzi di (dis)informazione.

Giacomo Casanova (1979), Il duello, a cura di E. Bartolini, Adelphi, Milano, pp. 123

martedì 20 gennaio 2015

"Pro o contro la bomba atomica"


Quella che può sembrare un’invettiva contro l’utilizzo di armi di distruzione di massa, figlia della paura ai tempi dell’era atomica, diventa, in questa raccolta di scritti di Elsa Morante (1912-1985), una dissertazione sulla definizione e sul ruolo dello scrittore, un ruolo che non si esaurisce nello scrivere romanzi, ma che occupa l’intera esistenza di questi rari esseri umani. La caratteristica pesanteur della Morante, che lei stessa riconosceva come suo massimo difetto, è in realtà uno sguardo approfondito e diafano sulle vicende umane e sulla psicologia, connotato sovrano degli uomini che rende possibile immaginare e concretare, agire e reagire, amare e comprendere. Il titolo della pubblicazione adelphiana proviene dall’omonima conferenza tenuta da Elsa Morante nel 1965 presso il Teatro Carignano di Torino, ma la genuina ossessione che albergava in lei non poteva certo portarla a dibattere semplicemente di bombe H e guerra fredda. La Morante intravedeva nel concetto di disgregazione la peculiarità dei regimi borghesi che avevano trascinato il mondo in quella stupida divisione in blocchi, cui la bomba atomica avrebbe certamente posto un sigillo di morte violenta. All’interno di questa realtà disgregata sono dunque gli aizzatori di disgregazione a farla da padroni, siano essi statisti, burocrati, artisti o scrittori. Ecco perché il nodo centrale del discorso morantiano ricade con frequenza sulla figura del vero scrittore - e lei cita pure i suoi preferiti: Omero, Miguel de Cervantes, Stendhal, Herman Melville, Anton Čechov e Giovanni Verga - ovvero di colui che ha il compito di fornire un’intera immagine dell’universo, attraverso l’arte, che è «avventura cosciente nel mondo reale, immaginazione, esigenza disperata di verità, religione del futuro e della testimonianza, […] necessità di riconoscersi nella bellezza». Sono le armi della cultura e della verità quelle che la Morante invoca nel suo scritto, armi che pochi possiedono veramente, ma sui quali grava una grandissima responsabilità, quella di permettere alle generazioni future la possibilità di sbirciare al di là del muro, di godere di una fetta di libertà in più, di riconoscersi e riconoscere la componente che più conta tra gli esseri umani: l’umanità.

Elsa Morante (1987), Pro o contro la bomba atomica e altri scritti, Adelphi, Milano, pp. 143

sabato 17 gennaio 2015

"Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale"


Nelle "Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale" (1934) Simone Weil (1909-1943) si interroga sui fattori che determinano il perdurare delle vessazioni capitalistiche sulla classe meno abbiente, e su quali siano le prospettive di annullarle. Con disarmante originalità e attraverso un’analisi oggettiva, la Weil comincia la sua dissertazione con una critica al marxismo, ideata in un periodo certamente non facile, contrassegnato da opposte ed incendiarie ideologie. L’equilibrio dei suoi modi e l’umiltà con la quale contribuisce al dibattito sul macchinismo, sul proletariato e sulla democrazia, la pongono fin da subito in uno spazio avulso, tutto suo, lontano dalle rivendicazioni marxiste dei partiti comunisti europei e, soprattutto, dal bolscevismo russo che, attraverso i piani quinquennali, stava riproponendo il primato della produttività a danno dei lavoratori. La Weil è decisamente controcorrente - più volte la troviamo in aperto contrasto con Karl Marx (1818-1883) - quando afferma che «in una società fondata sull’oppressione, non solo i deboli, ma anche i più potenti sono asserviti alle esigenze cieche della vita collettiva, e vi è impoverimento del cuore e dello spirito negli uni come negli altri, benché in modo differente». L’approccio dell’autrice è sì scientifico ma non difetta di quel buon senso e di quella bontà d’animo caratteristici degli animi sensibili; la Weil è per la pace sociale e auspica un mondo in cui capitale e lavoro operino in simbiosi, ponendo al centro del processo industriale l’essere umano, il lavoro manuale e la capacità personale di coordinamento. In uno dei passaggi più importanti dell’intero libro, il quadro teorico inerente l’edificazione di una società libera, scevra dall’utopia ma tendente alla perfezione, l’idea della Weil ruba a piene mani da Darwin e Lamarck, fino al Cartesio del motto: «L’uomo comanda alla natura obbedendole». Del resto, troviamo spunti interessantissimi nella visione della Weil sulla rivoluzione, sullo smarrimento del nostro tempo, sulle differenti strutture sociali e sulle aspirazioni moderne verso una nuova civiltà, sulla credenza in un progresso materiale illimitato. Simone Weil ha fiducia negli uomini e soprattutto ha fiducia nel tempo, l’unico protagonista in grado di dirci se e come la nostra società arriverà ad un grado soddisfacente di felicità.

Simone Weil (1983), Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano, pp. 158

venerdì 16 gennaio 2015

"La selvaggia chiarezza" e "Trattato del Ribelle"


"La selvaggia chiarezza" è una raccolta di scritti del compianto filosofo e traduttore Franco Volpi (1952-2009) inerenti la vita e il pensiero di Martin Heidegger (1889-1976), pubblicati a mo’ di introduzione nei vari libri del grande filosofo tedesco editi da Adelphi, da "Segnavia" (1987) a "Parmenide" (1999), passando per "Che cos’è metafisica?" (2001) e "Lettera sull’umanismo" (1995). Essendo un libro postumo, "La selvaggia chiarezza" ha necessitato delle cure di Antonio Gnoli (1949), validissimo collaboratore di Volpi, e, nonostante le difficoltà di comprensione per un non addetto ai lavori, si presenta come un esauriente compendio di heideggerismo. Il libro, pur non seguendo una linea cronologica, parte dalla formazione cristiana di Heidegger, cui seguirà il repentino distacco per seguire in autonomia e libertà la ricerca metafisica e ontologica sui concetti di Sein (essere), Seyn (Essere) e Dasein (esserci), ponendo l’accento sul termine greco di ἀλήθεια (aletheia), in quanto verità dis-velata, immessa da Aristotele nel linguaggio odierno tramite una caratterizzazione che, elidendo l’alfa privativo, ne ha soppresso la qualità di negazione. Qui il pensiero di Heidegger viene analizzato nelle sue continue e severe indisposizioni con la fenomenologia di Edmund Husserl (1859-1938) fino a quello che si rivelerà il vero crocevia del pensiero heideggeriano: l’incontro col nichilismo. La rivoluzione di Friedrich Nietzsche (1844-1900) opererà una tale distruzione sul concetto di Dasein che il sistema di Heidegger ne rimarrà a lungo desertificato. La prova di questa frustrazione è evidente nel carteggio intessuto con un altro grande critico del nichilismo, Ernst Jünger (1895-1998) - che nel "Trattato del Ribelle" (1951) prefigurerà l’anarca, colui che attraversa il bosco, ovvero le comuni regole del vivere e pensare civili - col quale disquisirà circa il superamento o meno del nichilismo stesso ("Oltre la linea", 1989). È proprio questo uno dei momenti più densi del libro, assieme a quello riguardante il concetto di Ereignis (evento), trasvalutato da Heidegger per definire l’indefinito, così com’è ancor oggi per il λόγος (logos) o il Tao ("Contributi alla filosofia. Dall’evento", 2007). Al pari delle filosofie orientali, il nichilismo si nutre di insondabilità ed inintelligibilità, poiché la comunicazione verbale non basta a descriverne l’ampio spettro di potenzialità, metodi ed obiettivi. Altrettanto interessante ci appare la storia accademica del filosofo tedesco allorché, ritrovatosi rettore dell’Università di Friburgo, smette di produrre pensiero poiché oberato dagli affari amministrativi, o quando, nell’immediato dopoguerra, viene allontanato dalla comunità accademica per il suo trascorso nazionalsocialista, accusa che investì l’intera galassia nichilista a causa della banalizzazione operata tra la volontà di potenza nietzschiana e i totalitarismi europei che avevano generato il conflitto planetario. Il libro in oggetto si conclude col fallimento personale di Heidegger e dell’heideggerismo, dei quali è legittimo pensare qualsiasi cosa, ferma restando la genuinità con la quale hanno ininterrottamente battuto tutti i sentieri, più o meno agibili, per giungere alle radici dell’Essere e dell’essere umano. Franco Volpi termina questo suo viaggio affermando che «per avventurarsi troppo in là nel mare dell’Essere, il pensiero di Heidegger va a fondo. Ma come quando a inabissarsi è un grande bastimento, lo spettacolo che si offre alla vista è sublime». Su questo mare magnum di essenza e trascendenza, materia e spirito, resta a galla l’impervia ed infrangibile trasparenza del pensiero (post)nichilista che ammette il Tutto in quanto emanazione del Nulla, e in cui ogni postulato assunto per ricercare il senso diventa esso stesso la tesi che lo confuta.

Franco Volpi (2011), La selvaggia chiarezza. Scritti su Heidegger, a cura di A. Gnoli, Adelphi, Milano, pp. 336
Ernst Jünger (1990), Trattato del Ribelle, trad. di F. Bovoli, Adelphi, Milano, pp. 136