mercoledì 29 aprile 2015

"Guerra al buio" e "Saddam e le Sugababes"


Non è fondamentale sapere cosa sia lo stato di guerra, e se sia evitabile o meno in particolari frangenti storici. Al contrario, è fondamentale capire che la guerra è sempre uno stato latente nelle relazioni internazionali tra paesi e nazioni. Chi reclama la pace con troppa veemenza solitamente ha torto. Non a caso il termine peacekeeping è quantomeno paradossale poiché implica un’operazione di qualche tipo - solitamente militare - per pacificare, in un momento, evidentemente, in cui pace non c’è. Dunque la guerra è una mera soluzione, assieme ad altre meno aggressive, per (ri)stabilire uno status quo. La mia generazione, nata negli anni ’80, ha vissuto una guerra su tutte, quella intrapresa nel 2001 dagli Stati Uniti ai danni dell’Afghanistan prima e dell’Iraq poi, in seguito allo spettacolare ed infame attentato terroristico al World Trade Center di New York. L’obiettivo dichiarato dagli americani era quello di scovare e distruggere le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein (1937-2006) e, al contempo, dare la caccia a Osama bin Laden (1957-2011) e ai suoi gregari, rifugiatisi sulle alture afgane. Armi non ne furono trovate e il capo di Al-Qaida fu ucciso in Pakistan, da molti anni Paese fedele (ma non troppo) agli USA. Di quella guerra - attualmente in corso in Afghanistan, seppur con intensità minore - resta un paludoso garbuglio di conflitti non risolti fra tribù, confessioni islamiche e interessi commerciali che fanno gola a tutti gli stakeholders. È difatti possibile far risalire al conflitto in Afghanistan - alla caduta dei talebani in particolare - l’esacerbazione della jihād targata ISIS, come a suo tempo era possibile far rinvenire nel crollo dell’URSS l’ascesa del panarabismo prima e dell’integralismo islamico poi. In Occidente le guerre di Geroge W. Bush (1946) hanno provocato tutte le reazioni possibili, dallo sdegno all’approvazione, dalla critica più feroce alla fedeltà più cieca. Ma resta il fatto che quella guerra, seppur con modi, ingaggi e tempi diversi, era forse inevitabile. L’11 settembre 2001 non è stata aggredita l’America, ma l’intero Occidente cristiano e democratico, costretto oggi a rivedere molte delle proprie conquiste in termini di diritti civili, integrazione e multiculturalismo: di certo in Italia abbiamo fortemente criticato Oriana Fallaci (1929-2006) e negli Stati Uniti hanno fortemente difeso Samuel Huntington (1927-2008). Ma al di sotto della disputa socio-antropologica c’è l’universo giornalistico, e Tim Judah (1962), corrispondente in Afghanistan e Iraq per la New York Review of Books, si pone come eccellente esempio di giornalismo in presa diretta. Dopo i quattro reportage afgani di "Guerra al buio" ne ha pubblicati altri tre in "Saddam e le Sugababes", dove il termine di paragone tra il sanguinario dittatore e la pestilenziale girlband sta nel fatto che le fonti irachene, per poter conversare serenamente col nostro Judah, erano solite alzare a dismisura il volume delle TV, con i tormentoni delle tre bambole inglesi che passavano ossessivamente a rotazione. Questi libri sono testimonianze contenenti solo ciò che l’autore ha visto e vissuto tra Kabul e Baghdad, senza licenze, opportunismi o patetiche cadute nell’ovvio.

Tim Judah (2002), Guerra al buio, trad. di M. Codignola, Adelphi, Milano, pp. 103
Tim Judah (2003), Saddam e le Sugababes, trad. di M. Codignola, Adelphi, Milano, pp. 100




martedì 28 aprile 2015

"Il più grande uomo scimmia del Pleistocene"


Un’affiatata orda subumana è quella messa in scena dallo scrittore e giornalista inglese Roy Lewis (1913-1996) nel suo sfolgorante e ignoto capolavoro "Il più grande uomo scimmia del Pleistocene" (1960), nel quale, col caratteristico piglio umoristico britannico, vengono abbozzate tutte le virtù e le meschinità dell’essere umano, identiche e reiterate fin dalla notte dei tempi. Lewis immagina una famiglia preistorica piccolo-borghese - che scorrazza tra l’Uganda, il Malawi e il Kilimangiaro - alle prese con le più importanti rivoluzioni tecnologiche del tempo, una su tutte: la scoperta del fuoco. Il padre illuminato e amante della scienza che viene via via sopraffatto dai figli non fa che mostrare la preponderanza dell’utile commerciale sulla condivisione della conoscenza scientifica e, al contempo, dimostrare l’avidità e la sete di potere insite in ogni essere (sub)umano. Eppure nel libro si ride molto, tanto che le pagine scivolano in rapida successione; fermo restando che, ad ogni sorriso, corrisponde un’analogia col presente, con ogni presente della storia: i rapporti uomo/donna e l’invenzione del matrimonio, l’inutilità dell’arte agli occhi della massa bruta, la malizia e la strategia, la ricerca di una fonte di dominio sugli altri mascherata da divinazione o da magia, l’imperdonabile errore di qualsiasi oscurantismo come l’importanza del progresso e della preveggenza, col relativo rischio di scadimento nella logica del profitto personale. Questa divertentissima vicenda pleistocenica è dunque metastorica: Roy Lewis non ha fatto che raccontare l’umanità d’ogni tempo e d’ogni dove, e, utilizzando gli esseri umani forse più autentici - i preistorici, senza storia né memoria - ne ha messo in evidenza tanto la tensione verso una vita migliore quanto l’inclinazione alla sopraffazione e alla soverchieria; prioprio come la tragica vicenda di Caino e Abele insegnava agli uomini, senza ombra di humour, che gli uomini, pur fatti a immagine e somiglianza di Dio, son sempre pronti a scannarsi a vicenda, per calcolo e per se stessi, non certo per sopravvivenza o per i propri simili.

Roy Lewis (1992), Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, trad. di C. Brera, Adelphi, Milano, pp. 178

venerdì 17 aprile 2015

"La porta senza porta" e "101 storie Zen"


Sono oramai tantissime le pubblicazioni inerenti lo Zen, il buddismo o il Tao curate da Adelphi. Non solo curate, quindi, ma letteralmente portate alla ribalta in questa fetta di mondo, che della spiritualità ha una concezione diametralmente opposta a quella indocinese, ed è basata perlopiù sulla codificazione del Verbo. Eppure la distanza tra i monoteismi abramitici e le filosofie speculative orientali è in realtà un falso mito; proprio per questo, per evitare stucchevoli banalizzazioni, è importante capire che ogni trasposizione delle religioni d’Oriente deve essere considerata in termini di studio e conoscenza, evitando un’adesione proselitistica, che altro non è se non un ballo in maschera in onore del dio d’Occidente. Oltre alle "101 storie Zen", tra i più importanti documenti storici v’è senz’altro "La porta senza porta", compilata da Mumon (1183-1260) nel XIII secolo d.C. su insistenza dei suoi allievi. Vengono qui accennate le vie che portano a dhyāna (meditazione), satori (rinascita) e nirvana (illuminazione), attraverso 48 (+1) kōan, ovvero problemi - di quelli che si assegnano agli studenti delle scuole elementari - che l’allievo deve risolvere: sulla base del metodo risolutivo il maestro capisce quali allievi possono aspirare ad una qualche fattispecie di nirvana. Qualora mi apprestassi a raccontare, spiegare o giudicare i kōan de “La porta senza porta” cadrei nell’irrimediabile errore ricordato in precedenza, dunque mi asterrò da ogni considerazione in merito. Resta il fatto che, agli occhi di un cristiano europeo, la lettura di questi dilemmi, apparentemente irrisolvibili, è un evento illuminante, nel senso della chiarificazione, per noi teologicamente indispensabile. Nella seconda parte del libro sono contenuti i "10 tori" del maestro cinese Kakuan (1100-1200), con moderne illustrazioni che percorrono le tappe dell’illuminazione - quasi fosse una Via Crucis senza dolore - e i 112 consigli amorosi (e non solo) di "Trovare il centro". Al termine di questo viaggio filosofico-spirituale appare ancor più diafano che: «Uomini ispiratori, conosciuti e sconosciuti al mondo, hanno senza dubbio condiviso una comune scoperta non comune. Il Tao di Lao-Tze, il Nirvana di Buddha, il Jehovah di Mosè, il Padre di Gesù, l’Allah di Maometto - tutti mirano all’esperienza. Il Nulla, lo Spirito - una volta toccato, tutta la vita si chiarisce». Insomma, in qualsiasi modo la pensiate, lo Zen è affar di non poco conto e, nel mio piccolo, voglio racchiudere la felicità nel seguente detto: «Muore il padre, muore il figlio, muore il nipote».

Mumon (1987), La porta senza porta. Seguito da “10 tori” di Kakuan e da “Trovare il centro”, a cura di N. Senzaki & P. Reps, trad. di A. Motti, Adelphi, Milano, pp. 120
Nyogen Senzaki & Paul Reps (a cura) (1973), 101 storie Zen, trad. di A. Motti, Adelphi, Milano, pp. 107




lunedì 13 aprile 2015

"Flatlandia" e "Erewhon"


È un racconto fantastico, veramente fantastico, quello messo in piedi dal pedagogo inglese Edwin Abbott Abbott (1838-1926) nello sfavillante anno del Signore 1882. Abbott immagina un mondo a due dimensioni, Flatlandia (Paese del Piano), dal quale il protagonista, un onesto e curioso quadrato, esegue voli pindarici in altri mondi, dimostrando ogni volta come sia difficile immaginarli e quasi impossibile spiegarli. Pointlandia (Paese del Punto), adimensionale, è abitata da un solo cittadino, egli stesso monarca, per il quale nulla è fuori di sé. A Linelandia (Paese della Linea) vivono individui a forma di linea, che su linee si muovono ed amano. Ma al di sopra della Flatlandia c’è Spacelandia (Paese dello Spazio), dove sfere e cubi arroganti e permalosi, dall’alto delle tre dimensioni, credono il loro mondo essere l’universo più perfetto. È a questo punto che il nostro quadrato ipotizza, sulla base di legittime analogie, l’esistenza di una quarta dimensione, ipotesi foriera di elucubrazioni scientifiche e fantascientifiche, e che comunque porterà davvero alle ricerche einsteiniane nel campo della relatività e dello spazio-tempo. "Flatlandia" è un libro aritmetico e meraviglioso, istruttivo per i ragazzi, avvincente per gli adulti, mitologico per i matematici, una di quelle gemme rare e preziose che solo Adelphi poteva ricacciare dall’oblio dell’Ottocento, al pari del suo autore, questo Edwin A. Abbott che in vita si occupò perlopiù di pedagogia e teologia. "Flatlandia" può d'altronde essere interpretato come una critica all’epoca vittoriana, tesa al raggiungimento dell’equità, nel superamento delle divisioni di genere e di ceto, proprio come intese fare il suo illustre predecessore "Erewhon" (1872) del grande Samuel Butler (1835-1902); può inoltre essere un invito alla trascendenza, a partire dal refrain «verso l'Alto, non verso il Nord», formula utilizzata dal quadrato per tentare di spiegare l'esistenza di altri mondi, superiori e inintelligibili. D'altronde, nel mondo erewhoniano c'è il sovvertimento totale di ogni valore o categoria morale: ciò che è storpio è colpevole, l'irragionevole è logico, ma la colpa è virtù, dunque quel che è il premio ne diventa la pena. Il mondo ritratto da Butler - che può rassomigliare ai panorami de "Lo Hobbit" (1937; Adelphi, 1973) di J.R.R. Tolkien (1892-1973) - non è sospeso in un sogno, come la Flatlandia, bensì si fa luogo concreto, ipotizzabile, quasi auspicabile, se pensiamo al rigore della società vittoriana del tempo, come già anticipato incline a restaurare tanto il principio d'autorità del clero quanto l'importanza di ordine sociale di distinguere il popolo dall'aristocrazia.

Edwin A. Abbott (1966), Flatlandia. Racconto fantastico a più dimensioni, trad. di M. D’Amico, Adelphi, Milano, pp. 166
Samuel Butler (1975), Erewhon, trad. di L. Drudi Demby, Adelphi, Milano, pp. 237


venerdì 3 aprile 2015

"Pensieri del tè"


Guido Ceronetti (1927) è un intelletto quantomai eclettico, una vera e propria eccellenza - scusate il sostantivo abusato! - del pensiero italico. Occupato su più fronti, dalla critica alla poesia, passando per filosofia e teatro, lo scrittore torinese è da sempre affezionato all’abitudine di una buona tazza di tè cinese, una al mattino, una al pomeriggio: momenti personalissimi che lo estraniano dalla realtà circostante e gli permettono di girovagare, da perfetto apolide culturale, nei più reconditi anfratti del sé e della coscienza, nonché dell’attualità, della letteratura, della storia e della religione. Ecco, molti di questi spunti sono racchiusi frammentariamente o aforisticamente nei "Pensieri del tè", libello che tratta dell’Enola Gay e di Israele, di donne e comunismo, di Hitler e Mussolini, di Walter Rathenau (1867-1922) e Ceronetti. Ognuno troverà qualcosa di illuminante in queste poche pagine: il senso del collaborazionismo del generale Philippe Pétain a partire dal lemma originario Zusammenarbeit; la Russia tradita dalla rivoluzione bolscevica; l’intento salvifico che accomuna cristiani e comunisti; la visione dell’Ātman da parte di Bernadette Soubirous (1844-1879); la perduta estetica del mondo; la contraddizione teologica spinoziana; la mancata integrazione di Trieste nel tessuto politico italiano; la pace che, fattasi ideologia, è più pericolosa e banale della guerra; l’America senz’anima; e poi troviamo Carl Gustav Jung (1875-1961), Alessandro Manzoni (1785-1873), Céline (1894-1961), Julien Benda (1867-1956), Kostas Papaioannou (1921-1981). Guido Ceronetti possiede idee bellissime ed originali, e utilizza un vocabolario impressionante, che rende piacevole e sorprendente lo scorrimento delle pagine. «L’uomo beve il tè perché lo angoscia l’uomo. Il tè beve l’uomo, l’erba più amara». Più che amara, infestante; più che tè, gramigna.

Guido Ceronetti (1987), Pensieri del tè, Adelphi, Milano, pp. 112