venerdì 26 giugno 2015

"Limonov" e "L'affare Kurilov"


Due personaggi, entrambi russi; il primo realmente esistito e vivente, il secondo di pura fantasia, però verosimile; uno nato in epoca sovietica tanto da averne conosciuto e pianto la fine, l’altro, rappresentante dello zarismo, vissuto a cavallo della rivoluzione d’Ottobre. Eduard Savenko (1943), conosciuto come Limonov, è poeta scrittore nazional-stalinista, uccello del sottobosco moscovita, fondatore dei tanto temuti nazbol, allevato nel mito della Battaglia di Stalingrado e quindi diventato un acerrimo nemico dei grigi governi sovietici, tanto da meritarsi la dicitura di «elemento antisociale, fermamente antisovietico», che lo costringerà all’esilio e, di conseguenza, lo porterà prima nella plastificata New York di Andy Warhol, nella pasciuta Parigi e tra le linee di guerra balcaniche (a fianco dei cetnici) e moldave (dalla parte dei transnistriani) per far poi ritorno in madrepatria come nemico giurato di Vladimir Putin. Il bohémien Ed Limonov, un perfetto Oscar Wilde novecentesco: la sua vita è stata una vera e propria montagna russa fatta di confuse ma allettanti illuminazioni politiche e un lucidissimo stile letterario e poetico, pagati al prezzo di lavori umilianti, esperienze sessuali d’ogni tipo (dallo stupro alla pederastia), fallimenti sentimentali da gettarsi fra le rotaie del treno, suicidi quasi riusciti, e poi bassifondi, galere, guerre civili, porte in faccia, porcherie da clochard. Emmanuel Carrère (1957) è genuinamente affascinato dalla figura del fascista Limonov e non fa nulla per nascondere la sua ammirazione verso quest’uomo dal passato e dal presente discutibili, in quella mistura ideologica di stalinismo, dandismo, nazionalismo, socialismo, cristianesimo ed esotismo. Un garibaldino dei giorni nostri. Di tutt’altro genere è invece la storia raccontata da Irène Némirovsky (1903-1942) ne “L’affare Kurilov” (1933): si parla qui dell’omicidio perpetrato dai rivoluzionari russi ai danni del ministro della Pubblica Istruzione Valerian Kurilov, detto Pescecane per via della sua ieraticità e per il frequente ricorso alle armi durante le manifestazioni dei bolscevichi della prima ora. In realtà il killer, che da infiltrato vivrà al fianco del ministro come medico personale, conoscerà un altro uomo, educato, innamorato della moglie - per lei getterà la carriera alle ortiche - nonché fedelissimo a Nicola II, nonostante questi nutra poca stima per la sua persona. Limonov e Kurilov: da una parte un guerrigliero sempre pronto all’azione pur di scardinare ogni struttura acquisita, dallo Stato alla società civile, dal sistema dell’editoria alle arti amorose; agli antipodi un leale ed onesto servitore della patria disposto a tutto pur di rispettare la parola data allo zar, e che vive il lavoro e la famiglia come autentiche missioni di ispirazione divina. Non possiamo non empatizzare con entrambi i personaggi che, nei differenti e grandiosi registri di Carrère e della Némirovsky, ci appaiono luminosi e ambivalenti, imperscrutabili, sbagliati ed irraggiungibili.

Emmanuel Carrère (2012), Limonov, trad. di F. Bergamasco, Adelphi, Milano, pp. 356
Irène Némirovsky (2009), L’affare Kurilov, trad. di M. Di Leo, Adelphi, Milano, pp. 192


giovedì 25 giugno 2015

"Un posto piccolo"


Jamaica Kincaid (1949) è una scrittrice, e pure brava, con all’attivo quasi venti libri. Non solo. Jamaica Kincaid è nata a Saint John’s, capitale di Antigua e Barbuda, uno di quegli stati insulari delle Piccole Antille che piacciono tanto agli italiani per trascorrerci la luna di miele o per organizzare presunte importantissime convention di lavoro che finiscono perlopiù a puttane, nel senso letterale del termine - la certezza dell’irresponsabilità è forse il miglior afrodisiaco in circolazione. Anche questo è uno dei motivi per cui Jamaica Kincaid odia i turisti, ovviamente bianchi, ed io convengo con lei. Jamaica Kincaid dice che Antigua, che appare così bella, soleggiata e felice, è in realtà una terra arida e preda della siccità, governata da ladri, spacciatori, speculatori e trafficanti d’ogni risma, e non è difficile crederle poiché la corruzione è un male endemico di questo pianeta, tanto che, più ci si sposta a meridione, più il tumore sembra inasportabile. Non è razzismo dire che la corruzione è direttamente proporzionale alla scala cromatica della pelle. Dirò di più. Jamaica Kincaid, tra i bianchi, odia soprattutto gli europei, perché sono stati loro a scoprire, dominare e colonizzare la sua isola beata, facendone un porto di attracco, scambio e vendita di schiavi africani. Sulla mercificazione umana e sulla sua industrializzazione a livello atlantico siamo tutti d’accordo: solo gli stupidi potrebbero pensarla diversamente dal sentire comune, ovvero dal provare vergogna per ciò che è stato dal XVI al XIX secolo. Insomma, Jamaica Kincaid ha ragione un po’ su tutto nel risentito "Un posto piccolo" (1988), ma sembra proprio che abbia commesso un imperdonabile errore. Nelle pagine del suo libello non v’è una sola riga su ciò che Antigua fosse prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo. La Kincaid sembra credere nell’esistenza di un Eden caraibico improvvisamente sconvolto e massacrato dai rozzi e imbellettati uomini ricchi d’occidente: prima del 1493 Antigua è un paradiso, dopo quell’anno sarà un inferno. Ecco, questo è "Un posto piccolo", un libriccino interessantissimo che svuota di senso ogni luogo comune sulle mete esotiche e sul valore del turismo. Ma, al contempo, è un libro che punta il dito esclusivamente verso noi europei razza bianca dominatrice, ma nulla imputa al popolo nativo, se non quello di essersi lasciati soggiogare dai miti neoliberali e pseudodemocratici. La verità è che se non ci fosse stato Colombo, molto probabilmente non sarebbe mai nata una Jamaica Kincaid: questo è un dato di fatto che la nostra brava scrittice deve tenere a mente, anche se il pensiero le causa bruciori.

Jamaica Kincaid (2000), Un posto piccolo, trad. di F. Cavagnoli, Adelphi, Milano, pp. 83

martedì 23 giugno 2015

"Il Monte Analogo" e "Cristallo di rocca"


La montagna la può capire solo chi la vive: questa affermazione è vera a metà. La montagna, dal punto di vista alpinistico, certo, è di chi la scala o si appresta a farlo. È anche una quotidianità difficile, tra rocce aguzze e terra brulla, prati infertili e freddo glaciale, metri di neve e isolamento totale. Ma la montagna è soprattutto un’idea e quella possono comprenderla tutti. A qualsiasi cultura apparteniate, scoprirete che la montagna ha rappresentato sempre il medium tra la terra e il cielo, le cose che stanno in basso e quelle che stanno in alto, tra l’uomo e il dio, ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Essa è il simulacro stesso della trascendenza verticale. Così è anche ne "Il Monte Analogo" (1952), l’incompiuto romanzo surreale di René Daumal (1908-1944), nel quale una spedizione di otto sognatori parte alla volta del Pacifico sud-orientale per tentare la scalata al monte più alto del mondo, un monte non tracciato su alcuna mappa, vista la curvatura spaziotemporale creata dalla sua mole. Il romanzo finisce troppo presto e a noi non resta che immaginarne l’epilogo, stante quella «metafisica dell’alpinismo» che Daumal tratteggia con somma eleganza. Un altro libro sulla montagna, di tutt’altra fattura, è quello di Adalbert Stifter (1805-1868): "Cristallo di rocca" (1845) comincia come una novella per bambini e termina come una libro per adulti. Due fratellini che si perdono sulle cime ghiacciate alla vigilia di Natale: la montagna qui è un ente cristallino da temere a rispettare, e il racconto di Stifter è - a differenza del primo - teso all’immanenza più che alla metafisica. I bambini riusciranno da soli a trarsi d’impaccio e torneranno sani e salvi in paese, tra le braccia affettuose di genitori e nonni. Sogno, leggenda, viaggio, traversie, sono questi gli ingredienti d’ogni letteratura di montagna. Vi si cimentarono René Daumal e Adalbert Stifter, lontani un secolo per stile e cultura d’appartenenza, lasciando ai posteri due immagini opposte della montagna, una filosofica, mistica, l’altra pedagogica.

René Daumal (1968), Il Monte Analogo. Romanzo d’avventure alpine non euclidee e simbolicamente autentiche, a cura di C. Rugafiori, Adelphi, Milano, pp. 182
Adalbert Stifter (1984), Cristallo di rocca, a cura di G. Bemporad, Adelphi, Milano, pp. 89


venerdì 19 giugno 2015

"La ballata di Peckham Rye"


Avete mai visto "Teorema" (1968) di Pier Paolo Pasolini? È un film splendido ed ermetico sulla comunicazione e sulla libertà e su come quest’ultima, allorché è pura, sia in grado di distruggere l’uomo, una distruzione che fa volentieri a meno di qualsiasi giudizio di valore. Ne "La ballata di Peckham Rye" (1960) della complicata Muriel Spark (1918-2006) troviamo un protagonista simile all’ospite pasoliniano che sconvolge la vita della famiglia di industriali milanese in "Teorema". Dougal è infatti un uomo-diavolo arrivato nel quartiere londinese di Peckham Rye con l’intenzione di trovarsi un onesto lavoro e, chissà, metter su famiglia; questo sembra in un primo momento. La sua specializzazione sono le imprecisate scienze umane, grazie alle quali riesce a farsi assumere da ben due fabbriche con lo scopo precipuo di abbattere l’assenteismo del personale e di migliorare i rapporti intraaziendali, poi si fa commissionare la redazione di una biografia e, per ultimo, innamora datori di lavoro e ragazze, procurandosi simpatie totalizzanti e antipatie altrettanto universali. Dougal è una spia, un investigatore, un millantatore o un vero demone? La storia, che pare muoversi sulle tenui risacche della ballata, viaggia in realtà su binari ipertestuali: il lettore non può far altro che seguire l’evoluzione degli eventi, sballottato qui e là dagli scossoni della Spark. Fatto sta che dove passa Dougal l’esistenza degli altri personaggi ne esce sconvolta: pianti, colpi apoplettici, risse, scappatelle, tradimenti, rifiuti sull’altare. Proprio come l’ospite pasoliniano - emanazione dell’Adorabile di Arthur Rimbaud (1854-1891) - che, dopo la sua partenza dalla villa, lascerà la famiglia in uno stato di completa entropia: dall’allontanamento del figlio al blocco catatonico di sua sorella, dall’abbandono della fabbrica da parte del padre ai facili costumi della moglie, fino alla levitazione mistica della serva. Una vita difficile quella di Muriel Spark, che l’ha resa, nolens volens, una donna altrettanto difficile, strapiena di difetti fatali.

Muriel Spark (1996), La ballata di Peckham Rye, trad. di M. Crepax & M.G. Bellone, Adelphi, Milano, pp. 155

mercoledì 17 giugno 2015

"Una biblioteca della letteratura universale" e "Per una enciclopedia di autori classici"


Moltissimi amanti della lettura, negli attacchi di nostalgia, ripetono l’antico adagio secondo cui librerie e biblioteche hanno ormai vita breve. Colpa dell’ebook, della televisione, di internet, della politica, della scuola ecc. Non c’è più rispetto, dicono, per il libro, per la pagina scritta, per la cultura in generale, assumendo quindi che la cultura sia perlopiù quella stampata su carta. Alla lagna questi provetti bibliofili accompagnano spesso un vezzo, quello di poter contare su un libraio di fiducia che li consiglia, li indirizza e li coccola. Sorvolerò sugli improperi che affermazioni del genere scatenano in me e dirò invece che il mio libraio di fiducia è rappresentato non da un venditore di carta stampata bensì da un editore inimitabile - Adelphi in questo caso - e dagli scrittori stessi, che di libri devono averne letti parecchi e i cui suggerimenti appaiono subito più equilibrati e calibrati rispetto a quelli d’un libraio qualunque. È il caso di Hermann Hesse (1877-1962) - non a caso il mio scrittore prediletto - e Giorgio Colli (1917-1979), insigne filologo torinese. Dicevamo dunque dei consigli. Quelli, spassionati, di Hesse li trovate in "Una biblioteca della letteratura universale"; quelli di Colli, metodici, in "Per una enciclopedia di autori classici". Nei saggi del primo si parla a briglia sciolta della formazione del gusto personale, e quali autori di quali epoche è necessario, se non obbligatorio, leggere. La collezione non è così sconfinata come ci si potrebbe immaginare in un primo momento. Hesse sostiene che l’Italia abbia prodotto le cose migliori tra il XIV e il XV secolo, la Francia nel XVIII, la Germania a cavallo col XIX; e poi i testi sacri delle religioni monoteiste e le Upaniṣad, alcuni greci e latini sempiterni, il "Don Chisciotte della Mancia" (1605), i grandiosi e psicologici russi e gli inglesi di tutti i tempi, senza tralasciare le ventate d’aria nuova provenienti da Oltreoceano. Nelle prefazioni di Colli si tratta invece di capire quali autori eminentemente classici è necessario tenere in gran conto – dove per classico si intenda l’assenza di contemporaneità. Ippocrate, Stendhal, Arthur Schopenhauer, Niccolò Machiavelli, Miguel de Cervantes, David Hume, Hippolyte Taine, Leibniz, Friedrich Nietzsche, Francesco Redi e tanti altri, classici della letteratura, della religione, del pensiero scientifico vengono presentati dal Colli nel suo tipico registro tra accademia e filosofia, bon ton e romanzeria.

Hermann Hesse (1979), Una biblioteca della letteratura universale, trad. di E. Castellani & I.A. Chiusano, Adelphi, Milano, pp. 130
Giorgio Colli (1983), Per una enciclopedia di autori classici, Adelphi, Milano, pp. 166


lunedì 15 giugno 2015

"Il libretto della vita dopo la morte"


Avere coscienza della propria fine: ho sempre pensato che fosse questa la più grande e spaventosa caratteristica dell’essere umano. Una peculiarità che - dico io - rende possibile l’esistenza di una fase ulteriore oltre la morte, una tappa di energia, che però non posso e non voglio teorizzare. Il momento del trapasso, unico e irripetibile, diverso per ognuno eppure sempre uguale, è il mio pensiero principe e si presenta con intermittenza nella fase che precede il sonno. Può durare cinque minuti come può durare due ore: il terrore che dal collo fascia rapidamente la testa. Penso a coloro che mi hanno lasciato qui, morto, o a coloro che presto nasceranno. Mi rivedo sul letto quando sarà la mia ora e immagino le parole da dire in quel momento. Mi contorco e capisco che non è questo a terrorizzarmi bensì la paura dell’attesa di svegliarmi sapendo che sarà tutto confortevole, come oggi, e sarà tutto diverso, come domani. Il sublime Gustav Theodor Fechner (1801-1887) pubblicò nel 1836 "Il libretto della vita dopo la morte" nel quale lo psicofisico tedesco forniva la propria visione dell’aldilà. Per lui le connessioni tra il mondo sensibile e quello fantasmico sono reali e, a riprova di ciò, riporta le frequenti relazioni tra i viventi e i defunti. Nonostante ciò l’adorabile e fantasioso libretto di Fechner sazia il nostro appetito ma non consola i nostri timori. La morte resta lì, cancello d’un giardino su un’isola lontana, oltre il quale non si vede niente, nemmeno foschia, che pure sarebbe tonificante. Vista da qui la morte è solo un’idea, che si farà concreta quando ci appresteremo, un giorno, a oltrepassare quell’inferriata. Cosa troveremo? Saremo ancora noi? E, soprattutto, saremo? Ecco, a volte piango, quando dimentico di essere un frutto e non un albero; come le foglie che, grazie a Dio, non creano teoremi laici, si ammettono in quanto foglie e non negano il bosco. La cosa buona è che alla fine mi addormento.

Gustav Theodor Fechner (2014), Il libretto della vita dopo la morte, trad. di E. Sola, Adelphi, Milano, pp. 106


giovedì 11 giugno 2015

"Una sola moltitudine" e "Lettere alla fidanzata"


«Omnia trina perfecta sunt» dicono i latinisti di fede cattolica. Qui invece la perfezione non si limita alla triade bensì a una moltitudine (in)definita, i cui individui, se sommati, fanno uno: "Una sola moltitudine" è difatti l’autore stesso, proprio lui, il Fernando Pessoa (1888-1935) pessimista, tediato, futurista, romantico, autolesionista, innamorato, nichilista, traduttore, misantropo, medianico, eteronimico, commerciante, nazionalista, viaggiatore, amante delle infinite cose come delle sottigliezze, che non sa stare al mondo ma che, se costretto, è luce del mattino nella folla anonima lisbonese. Pessoa è tante persone in una: da bimbo fu Chevalier de Pas, poi Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, Bernardo Soares ed altri, vegeti o defunti; ognuno con una propria personalità, pensieri, carattere e indole autonomi. Questo primo volume, costituito da poesie, pagine di diario, missive e appunti sparsi del grande poeta portoghese, è curato dal massimo esperto italiano di estetica pessoiana Antonio Tabucchi (1943-2012), che qui coglie il Pessoa intimo e impubblicabile, non smussato delle asprezze sintattiche e ideologiche che giocoforza spariscono alla vigilia di una stampa editoriale. Troviamo la lettera inviata nel 1917 a Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) in cui, lodando il futurismo, se ne distacca per inseguire la Vertigine; gli scambi epistolari con l’amata bebè Ophelia Queiroz (1900-1991), completi e splendidi nelle "Lettere alla fidanzata"; troviamo il grande amore per il Portogallo dei Braganza, sconvolto nel 1910 dalla Repubblica, e per Lisbona in particolare; scopriamo tutto il suo sterco metafisico nelle locuzioni filosofiche, nell’amore per la parola pura, nell’otium trascorso a scrutare la gente comune, uomini grandi e piccoli, attori sulla scena della vita quotidiana del poeta. I molteplici Pessoa contenuti in "Una sola moltitudine" mi hanno ispirato una poesia - chi l’avrebbe mai detto? - che pressappoco fa così: «Discopro il sacro velo della conoscenza / Il miglioramento resta nell’aria a guardare / Questa ariosa altalena sulla preesistenza / Turpe girotondo di alveari e rumori / Se aggiungo qualcosa sottraggo all’assenza / Lo spirito lieve della montagna che aspetta / Trovo commensurate boria e competenza / Freddo vento glaciale che la mia lei non accetta / Dunque sono sparito nel candore del mondo / Prima svergognato, ora amato in più fretta / Lo ripeto da secoli, abbiamo toccato il fondo / Dell’oceano e del fango: nessuno che mi dia retta / Guardo adesso le storie intrecciate in ricamo / Di chi aveva già tutto e ha voluto partire / Sono stato già santo eppur non mi amo / Cerco adesso il vicario che mi lasci morire». È impossibile, dunque, non trovare qualche punto di contatto, fosse anche empatico, o di vera e propria comunanza con questo artista della parola: Fernando Pessoa uno, trino e per sempre vivente.

Fernando Pessoa (1979), Una sola moltitudine. Volume primo, a cura di A. Tabucchi, trad. di A. Tabucchi, M.J. de Lancastre & R. Desti, Adelphi, Milano, pp. 445
Fernando Pessoa (1988), Lettere alla fidanzata, a cura di A. Tabucchi, Adelphi, Milano, pp. 124




martedì 9 giugno 2015

"Visita a Rousseau e a Voltaire"


Ogni giornalista che si cimenti nel confronto diretto con un interlocutore illustre ha dinanzi a sé due alternative: la malizia e la ruffianeria. La prima porta l’intervistatore ad essere curioso, ai limiti della morbosità, più spesso duro e intransigente, facendo diventare l’intervista una sorta di interrogatorio; la ruffianeria è invece l’atteggiamento tipico di colui che si prostra dinanzi alla controparte, risultando oltremodo accomodante, servile, fatalmente gentile e benevolo, tanto da non poter mai aspirare alla condizione di cronista d’assalto. Tra Frost e Fazio vi sono ovviamente molteplici gradazioni di grigio. Ma poi ci imbattiamo in un giornalista ante litteram come James Boswell (1740-1795), una specie di falso nobile che, frequentando le migliori menti della sua epoca, spera di addivenire anch’egli ad una qualche illuminazione. Tra il 1763 e il 1765 si reca in Svizzera con l’intento di incontrare Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Voltaire (1694-1778) ed effettivamente ci riesce. È tanta la ruffianeria di Boswell che nulla gli è precluso, anche se ben presto verrà accerchiato da battute irriverenti, quasi deriso per via della sua scarsa antichità; va detto che per esser nobili non basta il blasone, ma di certo non è colpa del povero scozzese se porta un nome barbaro come tanti altri. Fatto sta che i due grandi illuministi (il primo un po’ meno), per natura un po’ altezzosi, mostrano un certo ghigno snob - vanità più che vanitas. Gli incontri a due di James Boswell rappresentano comunque una interessante intrusione nelle vite e nei pensieri privati di questi due immensi intellettuali: mitezza e santità racchiuse in un sol volto. Alla fine ce lo immaginiamo Boswell a riflettere sulla propria condizione: a star con i migliori ha guadagnato little or nothing!

James Boswell (1973), Visita a Rousseau e a Voltaire, a cura di B. Fonzi, Adelphi, Milano, pp. 122


lunedì 8 giugno 2015

"Il Demiurgo" e "Gli stati molteplici dell'essere"


La figura mitologica del Demiurgo fu introdotta nel pensiero occidentale da Platone, fondamentalmente per risolvere una questione ontologica: chi dà forma al mondo? Nei saggi di René Guénon (1886-1951) compresi nell’arco temporale che va dal 1909 al 1950, tutti molto omogenei e coerenti, l’esoterista francese rimette la figura divina dell’artigiano al suo posto, ovvero come mediazione tra il genere umano, l’Adam Kadmon, e le sfere celesti, l’Iperuranio, Dio. Ma nella gnostica ricerca della verità integrale una e una sola, indivisibile, monoteista si imbatte anche nel mormonismo e nella reincarnazione, entrambi sagacemente condannati dal nostro con l'accusa di spiritismo o, peggio, psichismo. Sul consueto percorso intellettuale di Guénon si intrecciano dunque le vie spirituali di tutte le religioni del mondo, e di nuovo torna preponderante il concetto di spirito - già espresso con magniloquenza nel capolavoro de "Il Re del Mondo" (Adelphi, 1977) - cui Guénon affianca il πνεύμα (pneumagreco e lo yogi indù. Ma in questa preziosa raccolta vi sono anche affascinanti teorie numerologiche e cosmogoniche, nonché un’aperta critica alla società contemporanea, accusata di esser diventata il regno della scienza profana, che ha rinnegato le dottrine tradizionali in favore di un involgarimento delle conoscenze scientifiche, ha appiattito la cultura per inseguire il modello dell’istruzione pubblica a scapito dell’insegnamento elitario, una società che insomma ha sacrificato la qualità sull’altare della quantità. Come dargli torto? Ciononostante i saggi contenuti ne "Il Demiurgo", e maggiormente "Gli stati molteplici dell'essere" (1932), sono stati aspramente criticati nel corso dei decenni; i detrattori di René Guénon lo hanno accusato di aver fornito prove scientifiche troppo evanescenti per sorreggere le sue teorie, oppure di aver inseguito un modello religioso acefalo che non includesse l’elemento rivoluzionario rappresentato dall’avvento del Cristo, od ancora di aver proposto soluzioni errate per le pratiche di iniziazione, infine di apostasia per aver rinnegato il cattolicesimo in favore del sufismo. Recepita o biasimata, l’opera chiarificatrice di Guénon è comunque importantissima perché rappresenta un ponte tra le diverse anime della spiritualità terrestre, un ponte che, ieri come oggi, si pone come mezzo di comprensione dell’altro e di pacifica convivenza tra tutte le popolazioni.

René Guénon (2007), Il Demiurgo e altri saggi, trad. di G. Cillario, Adelphi, Milano, pp. 313
René Guénon (1996), Gli stati molteplici dell'essere, trad. di L. Pellizzi, Adelphi, Milano, pp. 148


mercoledì 3 giugno 2015

"Il respiro"


"La guerra è cominciata": questo potrebbe essere il giusto sottotitolo di questo libro di Thomas Bernhard (1931-1989) datato 1978. "Il respiro" è infatti il racconto in prima persona della lunga degenza del diciottenne Bernhard in un ospedale salisburghese per curare una gravissima forma di pleurite. In un apposito reparto di quel nosocomio, presto ribattezzato trapassatoio, vista l’alta percentuale di morti, il protagonista si farà testimone di vita, testardo e fiero nei momenti di miglioria, supino e frustrato in quelli più bui (collassi, toracocentesi, svenimenti). E in questa tundra quotidiana Bernhard avrà modo di ascoltare - più che vedere - il cappellano che impartisce le estreme unzioni come fossero merendine, le suore indaffarate ma indifferenti al dolore che ivi regna, i malati che arrivano in condizioni pessime per poi andarsene in bare di zinco, insomma tutta un’umanità che all’interno di un ospedale è appiattita ed equalizzata verso un solo idealtipo: il misero. Osti, fattorini, generali, preti, medici, studenti, vecchi e giovani, tutti accomunati dal rapporto con la malattia, propria o degli altri, in una terribile lotteria in cui non vince nessuno: i più fortunati muoiono senza dolore, gli altri agonizzano o sopravvivono severamente debilitati. Per buona parte del percorso verso la guarigione, l’autore avrà al suo fianco l’amato nonno, anch’egli ricoverato lì, e poi ritroverà l’affetto e l’intimità della madre, della cui assenza aveva grandemente sofferto fino ad allora. Ma quando le sue condizioni di salute miglioreranno sensibilmente il nostro verrà trasferito in un convalescenziario di montagna al confine bavarese. Presto scoprirà che quella struttura non è un’amena residenza per persone con problemi respiratori (come recita la dicitura) ma un lazzaretto per malati terminali di tubercolosi. L’infamità dei medici che lo spedirono in quel posto disgraziato causerà un ulteriore passaggio di Bernhard verso la malattia, stavolta più grave e debilitante della prima. Tra lutti e perdite, Thomas Bernhard non perderà la forza di (soprav)vivere, il soffio, quel respiro vitale di cui l’esistenza non è che mera emanazione.

Thomas Bernhard (1989), Il respiro. Una decisione, trad. di A. Ruchat, Adelphi, Milano, pp. 125