mercoledì 23 dicembre 2015

"La nascita della tragedia" e "Anatol"


Da un lato c’è Friedrich Nietzsche (1844-1900), dall’altro Manlio Sgalambro (1924-2014). Utilizzeremo questi due filosofi per immortalare i secoli che rispettivamente rappresentano. Nietzsche, uomo dell’Ottocento, spianò la strada al secolo breve; il novecentesco Sgalambro, invece, preparò l’avvento del terzo millennio, del tutto simile al secolo precedente, almeno nei timori e nelle ossessioni. Il Nietzsche che scrive "La nascita della tragedia" (1876) non è ancora rinsavito/impazzito: il suo punto fermo sta nella dicotomia tra l’apollineo e il dionisiaco, un dualismo che ha contraddistinto tutta la critica accademica sul filosofo tedesco per molti decenni e che ancor oggi è dura a morire. Il Friedrich Nietsche anticristo è tuttora bollato, spesso, come un refuso mentale, una deriva ideologica della filosofia pura, un errore sul cammino speculativo della saggezza filosofica. Sgalambro, d’altronde, è il filosofo senza scuola, quello che ha abdicato agli strumenti e al metodo accademici. Tuttavia presentò nel 1990 "Anatol", un libro che criticava apertamente Nietzsche sul suo terreno, quello del nichilismo, infimo ed infido. La differenza sostanziale - che si fa secolare se la utilizziamo in maniera sineddotica - è che Manlio Sgalambro sosteneva di non poter fare a meno della teologia per dichiarare il Nulla. Nietzsche, al contrario, ne faceva volentieri a meno, e la parola Dio, nel suo vocabolario, più che vietata era semplicemente estinta. L’incendio appiccato dal tedesco viene dunque spento dal siciliano, a cui non manca il sorriso e un pizzico di umanità. In aggiunta, Sgalambro introduce il concetto di nolontà, atto con cui la volontà, negando il reale e se stessa, raggiunge la liberazione dal dolore. Pietà e misura, dunque.

Friedrich Nietzsche (1977), La nascita della tragedia, trad. di S. Giametta, Adelphi, Milano, pp. 214
Manlio Sgalambro (1990), Anatol, Adelphi, Milano, pp. 167


lunedì 21 dicembre 2015

"Lenz"


Chi dice di amare la vita in realtà non ama la vita, ma il suo feticcio. L’ottimista, l’intraprendente, l’euforico, son tutte forme, più o meno sincere, della banalità. Chi dice di amare la vita evidentemente non ne avverte la gravità, non si vede schiacciato dalla sua terrificante mola che tutto stritola ed ottunde. Dunque gli accessi di gioia e dolore, rabbia e felicità, li lasciamo volentieri agli stolti. Incamminatici sul sentiero del pessimismo, oltrepassato il disfattismo, ci inerpichiamo per le selve del Nulla. Assieme a noi c’è Georg Büchner (1813-1837), una vita bella e devastata, una gioventù finita ancor prima di cominciare, un talento nato anziano, un drammaturgo azzeccato, un ragazzo nato nel posto giusto al momento giusto, uno scrittore inopinatamente sbagliato. Il personaggio Lenz, protagonista dell’omonimo racconto tragico del 1835, è egli stesso, è Büchner listato a lutto, camminatore infaticabile di cime, foreste e valli, a cui la pesantezza dell’esistenza è ogni minuto più insopportabile, eccessiva. Vede la morte, la conosce, ne resta terrorizzato. Eppure non demorde, tant’è che si suicida e, non riuscendoci, si vede costretto a continuare, come Atlante, l’antico esercizio di reggere il mondo sulle proprie spalle. Quella morte spaventevole e a breve agognata, Georg Büchner l’avrà a soli ventisei anni, col tifo che se lo porterà via come una foglia di basilico esposta al freddo invernale. Tuttavia Georg e il suo alter ego Lenz rimangono impassibili depositari dell’unica verità che tutto ammanta, ordina e redarguisce: si muore.

Georg Büchner (1989), Lenz, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, pp. 99

venerdì 18 dicembre 2015

"Saggio su Pan" e "La pentola dell'oro"


Il dio Pan, più di tutti i suoi colleghi, rappresenta appieno la sostituzione di senso, contenuto e venerazione operata dal cristianesimo sulle divinità pagane, greche o romane. Pan è caos, sovvertimento, anarchia, panico. Ciò è vero soltanto per quest’epoca; non è detto che lo sia stato anche ad Atene o Roma. James Hillman (1926-2011), forse lo studioso che meglio ha disvelato la figura di Fauno, nel suo "Saggio su Pan" (1972) ha praticamente condotto una vera e propria psicoanalisi sulla mente del dio, dimostrando molte delle maliziose inesattezze che tuttora lo riguardano. Del pari, James Stephens (1880-1950) prese la figura di Pan e la inserì in un contesto sgarbatamente onirico che univa diverse e lontanissime tradizioni, dalla favolistica irlandese alla religione greca. Ne "La pentola dell’oro" (1912) il dio è bello e magnetico, defloratore e gentiluomo, in una struttura narrativa che pare attingere dal James Joyce (1882-1941) più recondito. Letti in successione, questi due libri, entrambi difficoltosi, offrono comunque una panoramica su colui che, da simbolo della mascolinità, – o meglio della masturbazione, da intendere come l’onorevole pratica dell’onanismo – si è tramutato in corruttore, traviatore, distruttore dell’ordine mondiale e della teoria della passività e infelicità cristiane.

James Hillman (1977), Saggio su Pan, trad. di A. Giuliani, Adelphi, Milano, pp. 137
James Stephens (1969), La pentola dell’oro, trad. di A. Motti, Adelphi, Milano, pp. 231