lunedì 21 dicembre 2015

"Lenz"


Chi dice di amare la vita in realtà non ama la vita, ma il suo feticcio. L’ottimista, l’intraprendente, l’euforico, son tutte forme, più o meno sincere, della banalità. Chi dice di amare la vita evidentemente non ne avverte la gravità, non si vede schiacciato dalla sua terrificante mola che tutto stritola ed ottunde. Dunque gli accessi di gioia e dolore, rabbia e felicità, li lasciamo volentieri agli stolti. Incamminatici sul sentiero del pessimismo, oltrepassato il disfattismo, ci inerpichiamo per le selve del Nulla. Assieme a noi c’è Georg Büchner (1813-1837), una vita bella e devastata, una gioventù finita ancor prima di cominciare, un talento nato anziano, un drammaturgo azzeccato, un ragazzo nato nel posto giusto al momento giusto, uno scrittore inopinatamente sbagliato. Il personaggio Lenz, protagonista dell’omonimo racconto tragico del 1835, è egli stesso, è Büchner listato a lutto, camminatore infaticabile di cime, foreste e valli, a cui la pesantezza dell’esistenza è ogni minuto più insopportabile, eccessiva. Vede la morte, la conosce, ne resta terrorizzato. Eppure non demorde, tant’è che si suicida e, non riuscendoci, si vede costretto a continuare, come Atlante, l’antico esercizio di reggere il mondo sulle proprie spalle. Quella morte spaventevole e a breve agognata, Georg Büchner l’avrà a soli ventisei anni, col tifo che se lo porterà via come una foglia di basilico esposta al freddo invernale. Tuttavia Georg e il suo alter ego Lenz rimangono impassibili depositari dell’unica verità che tutto ammanta, ordina e redarguisce: si muore.

Georg Büchner (1989), Lenz, a cura di G. Dolfini, Adelphi, Milano, pp. 99

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