mercoledì 29 luglio 2015

"Ti-Jean e i suoi fratelli / Sogno sul Monte della Scimmia"


Il premio Nobel Saul Bellow (1915-2005), durante un’intervista al The New Yorker nel 1988, asserì che: «Quando gli zulù produrranno un Tolstoj, lo leggeremo». Quest’affermazione, dopo l’11 settembre 2001, ha letteralmente fatto impazzire di gioia coloro che credono nella superiorità della cultura occidentale rispetto a tutte le altre. Baccagliare su quanto razzismo sia insito in quest’asserzione è un gioco che chi scrive non vuol giocare. Di per sé esaustiva, la testimonianza bellowiana omette comunque un’incontrovertibile verità: che nella società occidentale sono comunque pochissimi i Tolstoj. La letteratura di matrice africana è certamente più scarna di quella americana che è a sua volta più esile di quella europea (tedesca, francese e italiana su tutte), eppure c’è Derek Walcott (1930), scrittore santaluciano insignito nel 1992 del premio Nobel, del quale ho appena finito di leggere due opere teatrali pubblicate nel 1993 da Adelphi. Dalla poetica di Walcott emerge un universo fatto di elementi religiosi arcaici e di confessioni importate, il tutto in un’ottica dicotomica tra il negro e il bianco. Sta di fatto che nelle sognanti pagine di “Ti-Jean e i suoi fratelli” (1958) e “Sogno sul Monte della Scimmia” (1967) non c’è astio o recriminazione alcuna. I poveri creoli di Walcott sono esseri umani creduloni, mistici, meschini o eroici tanto quanto i personaggi di un poema greco. Il cosmo onirico nel quale i personaggi abitano e agiscono è sempre un luogo esotico pervaso dalla dominazione europea, anche se gli elementi dell’una e dell’altra cultura non sono in lotta tra loro, ma creano una sorta di frattura ingranata nella quale i due frammenti si incastrano alla perfezione, pur restando distinti: il timore di Dio, l’esistenza del maligno, i culti sincretici africani, la simonia, i negro spirituals, l’amore filiale.

Derek Walcott (1993), Ti-Jean e i suoi fratelli - Sogno sul Monte della Scimmia, trad. di A.P. Steele & F. Steele, Adelphi, Milano, pp. 176

venerdì 24 luglio 2015

"L'uomo che amava i bambini"


Leggevo "L’uomo che amava i bambini" (1940) di Christina Stead (1902-1983) quando a pagina 75 mi sono imbattuto nella seguente affermazione del protagonista Samuel, puritano ed utopista capofamiglia dei Pollit: «Forse già il piccolo Tomtom potrà vedere il tempo in cui saranno finite le ultime guerre e ci saranno gli Stati Uniti d’Europa e gli uomini non saranno più nascosti agli uomini loro fratelli da quella nube d’incomprensione generata dall’odio». In questo frammento è praticamente sintetizzata la Paneuropa del conte Coudenhove-Kalergi (1894-1972) idealizzata a partire dal 1922. Quasi un secolo dopo gli osservatori più attenti avvertono l’esigenza di un’Europa forte, coesa ed efficiente per far fronte alle sfide della crisi economica e per tener testa, in campo internazionale, alla costante emersione di nuovi colossi come Cina, India e Brasile. Ora più che mai preme affermare che la crisi che dal 2008 attanaglia l’Europa - la Grecia in particolare - sarà uno dei più importanti spartiacque nella storia dell’integrazione europea. La condizione sociale globale in cui uscirà l’UE da questa depressione della produzione e dell’occupazione sarà la miccia della sua disgregazione o della sua definitiva legittimazione. Sopravvivere uniti alla crisi significa legittimare l’euro come valuta forte ed attrarre contemporaneamente stati che sinora hanno utilizzato nei suoi confronti una politica attendista: Regno Unito, Svezia e Danimarca. Accanto alla questione puramente tecnocratica, sono ugualmente convinto che l’Europa debba finalmente compiere quel salto di qualità che troppo a lungo è stato rimandato: federarsi. Prendendo in prestito, con scarsa creatività, la definizione di Stati Uniti d’Europa, voglio qui sottolineare come il progetto federale sia rimasto l’unica via percorribile dai ventotto Membri per sopravvivere nel mondo odierno e per tornare al centro della vita politica, economica e culturale internazionale. Federazione che non rappresenta una semplice delega della propria sovranità ad istituzioni sovranazionali, bensì uno sforzo comune, certamente artificiale, affinché i cittadini di tutti i Paesi dell’Europa diventino finalmente cittadini europei. Portata a compimento l’unione monetaria bisogna quindi correre verso il traguardo dell’unione economica, per poter completare l’iter con l’unione federale. Ed è qui che entra in gioco quella ramificazione della società civile tanto biasimata: la politica, come polis ethica. Bisogna ovvero capire se le attuali leadership statali siano convinte dell’artificio federale e soprattutto quali e quante competenze abbiano per concretarlo. Mi viene dunque in mente, accanto a quella del già citato conte austriaco, la figura di Altiero Spinelli (1907-1986), federalista radicale dal passato comunista, precursore di quanto detto sinora, un politico colto e onesto, progettista appassionato dell’Europa. A chi possiamo affidare oggi il ruolo che fu di Spinelli? Infine, per quanto riguarda il suddetto libro, l'ho trovato tragico, difettoso, commovente, lento, bellissimo.

Christina Stead (2004), L’uomo che amava i bambini, trad. di F. Bossi, Adelphi, Milano, pp. 561

giovedì 16 luglio 2015

"Due città"


Il professor Monti disse no alle olimpiadi romane del 2020. Il modo, apparentemente sgarbato e superficiale, diede parecchio fastidio soprattutto al primo cittadino di allora, tale Gianni Alemanno. La realtà è che l’Italia non poteva - e forse non può - permettersi nemmeno un’olimpiade. Una verità dura da digerire. Una velleità. Troppo fresca è la ferita di Atene, impelagatasi in un evento sportivo troppo grande e dispendioso, che, senza ombra di dubbio, ha velocizzato lo sfascio economico del Paese ellenico. Ciò che più mi angoscia oggi è assistere all’ennesimo spreco di fondi e infrastrutture nella Città Eterna. Abito nel Parco di Torre Gaia e dal mio balcone è visibile a 360° tutto il campus di Tor Vergata, al centro del quale campeggia l’enorme croce voluta da Giovanni Paolo II per il Giubileo del 2000. Zona lussureggiante, parallela all’A1, con una linea di metropolitana nuova di zecca (anch’essa figlia di lungaggini e sprechi unici al mondo) e con 200.000 cittadini residenti - a cui vanno aggiunti gli abitanti dei Castelli Romani, numerosissimi e vicinissimi. Fu proprio a partire da quel Giubileo che la municipalità di Roma si mise in testa di far le cose in grande stile, alcune davvero troppo ingombranti. E proprio in quel campus, in occasione dei mondiali di nuoto del 2009 doveva esser pronta una città dello sport, avveniristica sulla carta e dallo spiccato gusto estetico, opera di un archistar internazionalmente riconosciuta come Santiago Calatrava. Alla fine, come spesso accade dalle nostre parti, il cantiere rimase aperto e i mondiali di nuoto dovettero svolgerli ancora una volta al Foro Mussolini. Nonostante ciò, i politici romani non si rassegnarono. Certi di una candidatura di Roma ai Giochi della XXXII Olimpiade - e quindi di una facile vittoria ai danni di Madrid, Baku, Doha, Tokyo e Istanbul - lasciarono in piedi il progetto di Calatrava e continuarono a dargli linfa, leggi soldi. Oggi quel progetto è praticamente un cantiere infinito, fermo e per niente frequentato. Inutile dire che dopo il no del governo questa fantasmagorica città dello sport di Tor Vergata rimarrà un’inutile chiazza di acciaio e cemento, inutile perché inutilizzata, non perché antiestetica. Molti analisti sono convinti che un evento di portata olimpica aumenti solo la spesa pubblica dello Stato che lo ospita: cio è vero ma non bisogna tralasciare il fatto che queste enormi manifestazioni sportive portano con sé un generale miglioramento delle infrastrutture. Basti pensare ai mondiali di calcio del 1990 e a come Roma - al pari di Bari, Milano, Torino, Napoli ecc. - aumentò la sua capacità di traffico, di accoglienza e di mobilità, pur con tutti gli errori del caso, dovuti perlopiù all’affarismo politico che in Italia è regola sine qua non. Al di là di tutte queste chiacchiere resta il fatto che l’Italia, ottava potenza industriale del mondo, non può permettersi nemmeno l’organizzazione delle olimpiadi estive. Poi leggo "Due città" di Elena Croce (1915-1994) e mi rendo conto che la morte di quella Roma artigiana e artigianale di un tempo era già stata certificata da questa valente scrittrice napoletana, con dovizia di particolari. Manca a Roma e all'Italia una élite intellettuale in grado non dico di attuarlo ma almeno di pensarlo, il cambiamento. Non ci resta che attendere l’esito della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024: un nuovo capitolo da scrivere, talmente nuovo da apparire già vecchio. Ennesima ermeneutica dell'incompiuto.

Elena Croce (1985), Due città, Adelphi, Milano, pp. 106

martedì 14 luglio 2015

"Sono il fratello di XX" e "La passione"


«Osservare gli altri è sempre interessante. In treno, negli aeroporti, nei convegni, mentre si fa la fila, mentre si è seduti in due a un tavolo; insomma in ogni occasione dove scorrono gli esseri. Anche a chi non viaggia o è molto solo capiterà di uscire per una mezz’ora in strada. E di osservare un gatto terribilmente assorto e vigile nel puntare la preda. O nell’artigliarla. […] Quando ha raggiunto il bersaglio, all’improvviso il gatto si distrae. Gli etologi chiamano questo movimento Übersprung. Avviene poco prima del colpo mortale». Così l’elvetica Fleur Jaeggy (1940), tanto capziosamente quanto impercettibilmente, definisce in "Gatto" il proprio stile di scrittura, praticamente tutto uno svicolamento dai canoni convenzionali. Qui abbiamo superato sia la scrittura libera che il flusso di coscienza. Nei racconti contenuti in "Sono il fratello di XX" c’è la Jaeggy di sempre, quella che dai dettagli in apparenza insignificanti riesce a costruire mondi e universi paralleli, nelle cui fondamenta v’è sempre uno scheletro di solitudine. Fleur Jaeggy cita anche Djuna Barnes (1892-1982), una scrittrice statunitense troppo poco conosciuta per lo stile innovativo e fin troppo acclamata per i trascorsi familiari. I suoi racconti non proprio stringati contenuti ne "La passione" hanno molti punti in comune con quelli di "Sono il fratello di XX", se non fosse per quella vena più marcatamente esistenzialista della Barnes. La Übersprung delle due notevoli scrittrici sta proprio in quell’improvviso e temporaneo allontanamento dagli aspetti pratici della vita, come un suicida che, dopo essersi gettato da un ponte altissimo, si accende una sigaretta durante il volo.

Fleur Jaeggy (2014), Sono il fratello di XX, Adelphi, Milano, pp. 129
Djuna Barnes (1980), La passione, trad. di L. Drudi Demby, Adelphi, Milano, pp. 122


mercoledì 8 luglio 2015

"Futilità" e "La sovrana"


La rivoluzione, la libertà, l’uguaglianza, tutte cose molto belle già per il semplice fatto di nominarle. In realtà l’avvento di cambiamenti così drastici all’interno di una società iniqua, se da una parte assicura maggiori diritti a classi sociali via via più estese, dall’altra esautora e svilisce - più spesso abbatte o massacra - le classi che rappresentavano quella stessa società. E non intendiamo qui soltanto i sovrani o gli aristocratici o gli sfruttatori, ma anche e soprattutto la piccola e media borghesia che, come nel caso russo all’indomani della rivoluzione d’Ottobre, andò incontro alla rovina più nera. Nell’occidente abbacinato dal mito della rivoluzione bolscevica sono tantissimi i riferimenti letterari a quel mondo utopico e reale a un tempo, come se l’URSS fosse un Bengodi socialista per il corpo e lo spirito; tuttavia dalla Russia stessa cominciarono a provenire, nell’era della distensione crusceviana, le prime legittime rimostranze verso lo stato totalitario e lo strumento da esso utilizzato per garantire la pace sociale: il gulag. Fra questi due antipodici fuochi v’è un misconosciuto scrittore inglese nato a San Pietroburgo, William Gerhardie (1895-1977), che ha raccontato la Russia sovietica negli occhi di un imprenditore minerario e di come i bolscevichi lo abbiano praticamente messo in mutande. "Futilità" (1922), lo dice il titolo, è proprio l’atteggiamento di questa famiglia - allargata all’inverosimile, poiché tutti dipendono dal reddito del capofamiglia - vieppiù attaccata alle insulsaggini borghesi, a quelle sacrosante futilità che la collettivizzazione ha sradicato. È come se la rivoluzione leninista abbia sacrificato sull’altare dell’eguaglianza il diritto ad essere banali, soddisfatti, realizzati. La vita degli esuli russi in terra di Francia è invece il nucleo narrativo de "La sovrana" (1932) di Nina Berberova (1901-1993), anch’ella pietroburghese. La famiglia ritratta dalla Berberova è diventata già una cellula sociale spaiata, le cui futilità sono le stesse di oggi: l’amore, l’università, la carriera, la convivenza, i rapporti familiari. Le vite raccontate in questi due libri non sono fotoromanzi tant’è che non terminano all’ultima pagina. Gerhardie e la Berberova ci forniscono gli elementi per cercare di comprendere, ci offrono un assaggio di cosa sono stati i russi e la Russia al di là d’ogni stereotipo. A noi, a voi, sta la possibilità di farsi un’opinione.

William Gerhardie (2003), Futilità, trad. di G. Celati, Adelphi, Milano, pp. 231
Nina Berberova (1996), La sovrana, trad. di M. Calusio, Adelphi, Milano, pp. 134


lunedì 6 luglio 2015

"L'Infanta sepolta" e "La casa madre"


Negli occhi ingenui dei bambini curiosità, grazia e stupore. Vedono cose che non esistono, persone che non ci sono più frammischiate a esseri immaginari, e a credergli si rischia di passar per pazzi. Ma quando un adulto conserva quella visione pura e scanzonata, allora sì che la vista del mondo può diventare scintillante. È il caso della silloge de "L’Infanta sepolta" (1950) della mediterranea Anna Maria Ortese (1914-1998), in cui ogni racconto è storia immaginifica - di un angelo, un dio, un padre, un signore - quasi sempre all’altezza d’una ragazzina. C’è l'adorata Napoli, luminosa e adagiata sul golfo, abitata da un popolino povero e regale, e poi ci sono queste pillole di grazia che la Ortese, in un linguaggio tutt’altro che comune, dispensa come fossero caramelle. L’autrice pare timorata di Dio se non fosse per quella vena surreale, a tratti panteistica, che affiora tra le pagine di queste novelle. Al pari, anche Letizia Muratori (1972), con gli occhi di bambini curiosi e pettegoli, presentò nel 2008 due amabili storielle ne "La casa madre". Dapprima una bambina alle prese con una bambola in un caleidoscopio di disavventure scolastiche e drammi familiari, poi un bambino troppo invadente ma genuinamente affezionato alle sue eroine puttane, finché il colpo di scena finale ruberà al lettore un ampio sorriso tra ironia e amarezza. Bambini, quindi. Esserini sacri, a volte trattati come bestie o, peggio, come oggetti da genitori tossici, preti perversi, maestri violenti, stronzi. Nei libri di queste due valenti scrittrici l’universo bambino si scrolla di dosso tutte le cronache torve di questo secolo per giungere alle sue origini, dove il valore primo qualificante è proprio la grazia divina.

Anna Maria Ortese (2000), L’Infanta sepolta, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano, pp. 196
Letizia Muratori (2008), La casa madre, Adelphi, Milano, pp. 114


venerdì 3 luglio 2015

"L'impronta dell'editore" e "Cento lettere a uno sconosciuto"


Aldo Manuzio (1449-1515) è stato un umanista italiano, il primo vero editore della nostra penisola. Per i suoi tipi - oggi roba da collezionisti e intenditori - sono usciti, a partire dal 1494, diverse opere di Tucidide, Aristofane, Erodoto, Platone, Aristotele, Sofocle ed Euripide, perfettamente in linea con lo Zeitgeist umanistico, teso a riscoprire i gioielli della drammaturgia, della letteratura e della filosofia precristiane. Ma c’è una pubblicazione su tutte che sembra stonare e che invece segna il passo della tipografia Manuzio: la "Hypnerotomachia Poliphili" (1499), romanzo allegorico scritto forse da un certo Francesco Colonna. È questo il libro che fa letteralmente impazzire Roberto Calasso (1941), oggi direttore editoriale di Adelphi dopo un’epica gavetta al fianco di Bobi Bazlen (1902-1965). Il nostro critico/scrittore/editore è convinto che una casa editrice, per definirsi tale, non deve limitarsi a pubblicare libri, fiutando il talento degli scrittori o sui consigli di qualche avveduto agente letterario, bensì ha l’onere di creare una forma, unica e irripetibile, una configurazione che sia qualcosa di consustanziale col contenuto dell’opera. Più che una ideologia, una religione. Calasso, ne "L’impronta dell’editore", parla delle origini di Adelphi - la sua Chiesa - e di come questa abbia cercato di sollevare dai fanghi della storia la letteratura germanofona di fine Ottocento, tutto il mondo onirico e surreale di certi sconosciuti prosatori, testi più o meno sacri delle religioni del mondo e altri autori che lo Zeitgeist presessantottino etichettava, senza mezzi termini, come fascisti o, nel migliore dei casi, borghesi: Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Ernst Jünger, Konrad Lorenz, Curzio Malaparte; è sempre Adelphi che ha tradotto e pubblicato in Italia Georges Simenon, Joseph Roth, Irène Némirovsky, J.R.R. Tolkien, Mordecai Richler o Emmanuel Carrère. Un’altra scelta operata da Calasso, tesa a far collimare estetica e sostanza, è quella del risvolto - un’arte vera e propria -, nel quale l’editore affronta i nodi del libro che si appresta a presentare al pubblico come avulsi dal libro stesso: non a caso i temi adelphiani sono sempre coessenziali alla realtà. Calasso ne ha dunque selezionati un centinaio per le sue "Cento lettere a uno sconosciuto". Le sfide del futuro sono tante per chi guida un’azienda del genere ma il libro, al pari del disco, non perderà la sua materia; non sentiremo mai la mancanza dei libri, semplicemente perché mai spariranno. E una parte del merito dovremo riconoscerla ad Adelphi.

Roberto Calasso (2013), L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano, pp. 164
Roberto Calasso (2003), Cento lettere a uno sconosciuto, Adelphi, Milano, pp. 236


mercoledì 1 luglio 2015

"Il dottor Semmelweis" e "La persuasione e la rettorica"


Quello accademico è un percorso che tutti dovrebbero fare, qualsiasi strada vogliano intraprendere in futuro. Oltre alla certificazione di determinate specializzazioni, esso permette di aprire la mente ai problemi circostanti, rifuggendo semplificazioni, banalizzazioni ed astrazioni. Ma l’università, a ben vedere, non è per tutti: non è una questione di intelligenza ma di applicazione, metodo e serietà. E non tutti, ahimé, possiedono - o vogliono possedere - queste virtù. Alla fine di ogni corso universitario c’è il momento impegnativo e felice della compilazione d’una tesi su un argomento specifico, da svolgere su indicazione e sotto l’egida di un professore ordinario. Ma cos’ha in comune Adelphi con Louis-Ferdinand Céline (1894-1961) e Carlo Michelstaedter (1887-1910)? Molto, poiché tra il 1975 e il 1982 ha pubblicato le rispettive tesi di laurea dei due scrittori. Quella di Céline (1924), studente di medicina, era incentrata sulla figura di Ignác Semmelweis (1818-1865); quella di Michelstaedter (1910), studente di lettere, sui concetti di persuasione e retorica in Platone e Aristotele. Prima dell’apoteotico "Viaggio al termine della notte(1932) e prima ancora dei pamphlet antisemiti, Céline si occupò di colui che, con una semplice ma geniale intuizione, rivoluzionò l’ostetricia, lasciandoci un ritratto impietoso di ciò che dovevano essere in un passato non troppo remoto i reparti ospedialieri tra le cui mura le donne gravide morivano come niente fosse, per stupide infezioni dovute alla scarsa igiene dei dottori. Semmelweis pensò giustamente di obbligare tutti gli ostetrici a disinfettare accuratamente le mani prima di ogni parto: inutile dire che da allora la mortalità infantile e quella delle puerpere si è drasticamente ridotta. Michelstaedter, a differenza di Céline, non discusse mai la sua tesi poiché, non appena terminatane la stesura, si sparò. Uomo inquieto, ha riversato in questo folgorante scritto tutta l’incapacità di superare la rettorica, quell’insormontabile cumulo di historia oltre il quale v’è, magnifica e inoppugnabile, la persuasione, ovvero la completezza, la vera libertà, il nirvana. "Il dottor Semmelweis" e "La persuasione e la rettorica" sono i rispettivi autoscatti di due falliti, antieroi del pensiero, fotografati nel periodo della giovinezza, quando le forze fisiche e intellettuali, nella maggior parte delle persone, stanno pian piano prendendo vigore. In loro due, queste forze erano già esplose, come una biglia che, dall’alto d'un piano inclinato, ha raggiunto il massimo dell’energia cinetica e non attende altro che terminare la sua folle corsa.

Louis-Ferdinand Céline (1975), Il dottor Semmelweis, trad. di O. Fatica & E. Czerkl, Adelphi, Milano, pp. 134
Carlo Michelstaedter (1982), La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano, pp. 212