lunedì 31 agosto 2015

"Chiedi scusa! Chiedi scusa!"


«Chiedi scusa! Chiedi scusa!» è ciò che un controllore irlandese urla a Collie, il protagonista, giovane medico, dopo che questo si è permesso di lamentarsi dell’estrema maleducazione di un autista di corriere. Collie sente di dover chiedere scusa non a quel controllore, ma alla sua famiglia e al mondo intero, anche se in realtà non ha nessuna colpa se non quella di essere il rampollo preferito di un magnate dell’editoria. La sua famiglia è però un vero e proprio bioparco: la mamma finta anticonformista, il padre quaquaraquà, lo zio Tom fissato nell’addestrare improbabili piccioni, il fratello Bingo scapestrato dongiovanni. Ma Collie si addossa la colpa della morte di suo fratello e di due amici per annegamento, quella di sua madre per un malore improvviso, quella di un paziente oncologico per negligenza, insomma Collie sente di non saper stare al mondo, e tenta pure il suicidio. Anni fa ho percorso, come Collie, la tratta Belfast-Galway su un pullman sudicio e pericoloso: fu un viaggio bellissimo come la campagna irlandese, e lunghissimo perché effettuato in un Paese con un sistema di trasporti da terzo mondo. Eppure, ricordo ancora con estrema gioia quella gita, ché l’autista non era maleducato ma semplicemente ubriaco. Fradicio. Collie è buono e assennato, il mondo è illogico e cattivo. Non fa per lui.

Elizabeth Kelly (2010), Chiedi scusa! Chiedi scusa!, trad. di O. Giumelli, Adelphi, Milano, pp. 349

giovedì 27 agosto 2015

"Bianco su nero"


Non ho mai condiviso la dicitura diversamente abili. Mi sa di ipocrisia e falsa pietà, una di quelle ruffianerie che gli uomini fanno per alleggerirsi la coscienza, perlomeno a parole, cercando così di alleviare lo status di chi è disabile. Una persona che nasce senza l’uso degli arti e con un evidente ritardo mentale è un handicappato, e non ha nulla di diversamente abile da un normodotato; la sua vita e quella di chi gli sta attorno saranno molto probabilmente un inferno. Poi arriva Rubén Gallego a confutare questa mia teoria, anche se, a pensarci bene, lo scrittore russo possiede davvero delle abilità diverse, poiché ha un talento raro, se confrontato alla maggioranza delle persone normali. "Bianco su nero" è proprio il racconto in prima persona, verissimo e veritiero, della sua infanzia nei vari orfanotrofi, ospedali e ospizi sovietici. Messo al mondo da due negri e lasciato ad appassire per via delle sue terribili disabilità (il nonno dirigente del Partido Comunista de España non poteva permettersi un nipote illegittimo e deforme), Gallego sopravviverà all’infame condizione dell’essere soli al mondo grazie ad un’intelligenza sopraffina e ad un’eleganza di pensiero che in seguito ne hanno fatto il grande scrittore che è oggi. Oltre alle sue guerre quotidiane - procurarsi il cibo o andare in bagno, ritagliarsi attimi di anarchia o risolvere problemi matematici - è sorprendente vedere come all’interno di un regime ateo ed anticlericale come quello sovietico, la religione e la carità cristiane siano sopravvissute clandestinamente negli animi di molte infermiere, insegnanti ed inservienti che il protagonista ha incontrato sul suo doloroso ma dignitosissimo cammino. È lo stesso Gallego a dire apertamente: «Grazie a tutte le inservienti buone, per avermi insegnato cos’è la bontà, per il calore che ho conservato nel mio cuore attraverso ogni sorta di vicissitudini. Grazie per ciò che non si può esprimere a parole, che non si calcola al computer e che non si misura. Grazie per l’amore e la carità cristiana, per il mio essere cattolico, per le mie bambine. Grazie di tutto». Semplice e toccante.

Rubén Gallego (2004), Bianco su nero, trad. di E. Gori Corti, Adelphi, Milano, pp. 187

mercoledì 26 agosto 2015

"La religione dei Cinesi"


Marcel Granet (1884-1940) è stato forse il più grande sinologo europeo che nel saggio "La religione dei Cinesi" - scritto nel 1922 ma pubblicato postumo nel 1951 - spiega come l’intreccio religioso e culturale abbia consentito alla Cina di creare una solida base per edificare in un futuro prossimo, rispetto ai tempi di Granet, una società forte e florida. Si sta diffondendo sempre più, presso le élite accademiche e governative, la convinzione secondo cui la terza via cinese possa competere con quella europea. Questo confronto appare non solo metodologicamente sbagliato ma soprattutto potenzialmente dannoso. Fino a venticinque anni fa eravamo abituati ad un mondo regolato dallo scontro ideologico tra il blocco capitalistico degli USA e quello socialista dell’URSS. Con la caduta del Muro questa dicotomia è svanita ma l’Europa, da sempre al centro di contese e conflitti, ha continuato, seppur tra mille difficoltà socioeconomiche, il proprio esperimento democratico, fatto di libero mercato e diritti civili. Mettere in discussione questo percorso, bisbigliando sempre meno a bassa voce che la Cina sia un modello vincente, è un’offesa alle vittorie ottenute nel corso dei secoli dall’umanità occidentale. Il Celeste Impero, fonte di tanta cultura e saggezza, è diventato un gigante esclusivamente economico, con pochi progressi dal punto di vista della libertà individuale e del diritto, dunque della felicità del popolo. In termini di metodo, porre sullo stesso piano il sistema cinese e quello europeo presuppone una loro possibile integrazione, il che si tramuterebbe a sua volta, sul piano concreto, non nell’agognata piena occupazione delle risorse lavorative bensì nella dittatura del lavoro, causando il definitivo tramonto della civiltà europea. Cina ed Europa devono conoscersi, scoprirsi, commerciare, cooperare. Ma il cielo non voglia che questo processo diventi un do ut des, giacché quello cinese non è realmente un modello, ma un feticcio, e di certo non per le iperinflazionate teorie che accusano la Cina di neoschiavismo, ma per la sostituzione di valori, lì operata, tra vita e lavoro, felicità e produzione. Gli stati totalitari fanno discendere ogni diritto dal Leviatano, quelli democratici li considerano innati negli individui; la Cina pare farli provenire dalla produttività, uno dei concetti moralmente più aberranti nella storia umana, in quanto istituzionalizza la natura macchinistica del cittadino e, di conseguenza, realizza la sua più completa sostituibilità. In un mondo sempre più virtuale e bisognoso di cultura, un siffatto approccio causerebbe un gigantesco passo indietro, gettando l’Europa in una nuova e controproducente era industriale. Il substrato culturale e il motore industriale ha giustamente posto la Cina ai vertici delle relazioni internazionali, ma ciò non significa che questo sia un valore assoluto cui aderire per produrre ricchezza. I problemi insiti nel sistema cinese non tarderanno a presentarsi e tra alcuni lustri si parlerà del boom economico cinese come di una causa scatenante - non di un effetto collaterale - del suo deficit democratico. E come il deficit, che accumulandosi crea lo stock di debito, al pari la Cina pagherà caro il suo debito pubblico di felicità. Della religione cinese, che faceva a meno di Dio e che Marcel Granet ammirava tanto, resta ben poco, soprattutto perché ora un dio ce l’ha: il suo nome è Renminbi.

Marcel Granet (1973), La religione dei Cinesi, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano, pp. 192

lunedì 24 agosto 2015

"Parole nel vuoto"


I più dicono che l’arte contemporanea è brutta, incomprensibile, elementare. Un taglio, uno scarabocchio, un’installazione fatiscente, uno sgorbio. A volte nemmeno quello: un gesto stupido, una frase ermetica, una burla ai danni dello spettatore. L’arte, ammettono gli stessi, è quella di Van Gogh, Giotto, Cézanne, Monet, finanche di Klimt o Munch, ma certo non è quella di Manzoni, Klein, Beecroft o Kawara. La maggior parte di quelli che si presentano al Louvre per la visita di rito, trascorre la giornata ad immortalare con la fotocamera "Amore e psiche" del Canova, la "Deposizione di Cristo" di Tiziano, "La Libertà che guida il popolo" di Delacroix o "La zattera della Medusa" di Géricault. Opere d’arte maestose, certo, ma non solo per la loro sconfinata tecnica pittorica. Di per sé, il gesto di fotografare un’opera d’arte è quantomai avvilente: si delega ad un occhio digitale quello che invece dovrebbe essere un diritto dell’occhio umano, in quanto collegato al cervello. Provate a porre ad uno qualunque di questi aitanti fotografi una semplice domanda e capirete quanto riduttiva e metodologicamente sbagliata sia l’idea comune sull’arte. Il quesito è: «Per te, cos’è l’arte?». La domanda sembra la stessa che l’architetto Adolf Loos (1870-1933) si è posto in diversi saggi contenuti nell'introvabile "Parole nel vuoto". La maggior parte dei vostri conversatori risponderà che l’arte è qualcosa che dà emozioni, oppure tutto ciò che è bello, persino ciò che richiede un notevole talento. Arriveranno a dirvi che l’arte è ciò che non si può spiegare. Risposte del genere non fanno che aumentare la confusione riguardo l’arte stessa che - ci sforziamo di ripeterlo da tempo, con definizione minimale - non è altro che l’attribuzione di un significato che va oltre l’oggetto. Nell’idea comune viene confusa l’opera d’arte con la sua dimensione estetica, confrontata l’arte con l’artigianato, ridotta essa stessa a ciò che non può essere per definizione: funzionale. L’arte non è decorativa, non è appagante né accomodante. Ma in questa sede non possiamo trattenerci a lungo sulle peculiarità intrinseche che distinguono un’opera d’arte - sia essa un quadro, un palazzo, una musica, un pensiero, un libro, una vita - dal resto delle cose umane, né possiamo qui convincere alcuno della bontà di questa idea. Perlomeno cercheremo in breve di condannare alcune costumanze che hanno impoverito l’arte, che l’hanno resa borghese, mediocre, e poi definitivamente messa in discussione. Se la metà dei frequentatori di musei capisse almeno quale storica rottura sia alla base della contemporaneità, oggi avremmo dei cittadini certamente più attivi ed appassionati. Perché il mondo dipinto da Baselitz e Baj non è più quello di Manet o Raffaello. Non è cambiato non il soggetto, ma il suo ruolo nel mondo. Questa discussione si rende necessaria soprattutto oggi, con le grandi avanguardie che hanno esaurito la vena creativa, e con autorevoli critici d’arte e curatori di mostre che si interrogano sull’effettiva qualità artistica del secondo Novecento. È vero che molta arte contemporanea è mera provocazione, ma la maggior parte della produzione del dopoguerra resta una pietra miliare nell’evoluzione del pensiero umano. D’altronde, non è stata altrettanto provocatoria l’arte di Dalí, Arcimboldo, Picasso, Correggio, Matisse, Leonardo? Purtroppo chi affolla i musei d’arte contemporanea se ne frega altamente di questa critique institutionnelle. Al giorno d’oggi le mostre e i musei vengono giudicati esclusivamente sull’affluenza di visitatori (dunque sugli introiti): faccenda oltraggiosa per ogni buon amante dell’arte. Chi invece continua a frequentare i musei classici (dal Louvre ai Musei Vaticani, dal Musée d’Orsay all’Hermitage, dal Prado agli Uffizi), del problema sull’arte contemporanea non ne è nemmeno cosciente. Per rendere davvero di massa l’arte contemporanea è obbligatorio un repentino mutamento dell’estetica dominante. E per cambiare l’estetica dominante c’è bisogno di una critica al gusto personale, partendo dalle sue radici. Capire cioè che i gusti non esistono, vieppiù non esistono valori assoluti, soprattutto nell’arte. È il significato dell’opera a parlare per lei, non il vostro gusto, gonfio di stereotipi e luoghi comuni. Dunque de gustibus disputandum est.

Adolf Loos (1972), Parole nel vuoto, trad. di S. Gessner, Adelphi, Milano, pp. 373

mercoledì 12 agosto 2015

"Tecnica del colpo di Stato"


La destra italiana, a dispetto di molte altre realtà europee, affonda le proprie radici culturali e politiche in un vastissimo panorama di intellettuali che, già prima dell’unificazione italiana, produceva un copioso scambio di idee, arti e proposte. I conservatori erano coloro che intendevano mantenere vivi i valori secolari della propria civiltà: la res publica romana, la cultura cristiana dei conventi benedettini, l’estetica rinascimentale, la flemmatica magnificenza borbonica o il nazionalismo sabaudo che portò all’unità d’Italia. Essere conservatori significava soprattutto riconoscere la disuguaglianza dei cittadini, per cui ogni individuo, in base alle proprie attitudini, al proprio talento e alle proprie capacità, percorreva una strada tutta sua, sulla quale gli sarebbero stati riconosciuti i meriti. Ai più deboli avrebbe pensato lo Stato, primo e ultimo erogatore di diritti e doveri. Seppur sintetizzata così malamente, la destra appariva un’area di pensiero talmente interessante da rendere fisiologico al suo interno il dialogo. Oggi invece sembra un deserto di sale, una tundra abitata da goffi esemplari di homo erectus, le cui proposte politiche raramente vanno al di là della lotta all’immigrazione, della millantata difesa del made in Italy, del sostegno alle attività imprenditoriali, della deregulation, della strenua difesa degli interessi ecclesiastici e, ovviamente, della venerazione del capo. La destra italiana è la supina accettazione degli ordini provenienti da personaggi politici di dubbio valore e di ancor più dubbia onestà, quantomeno intellettuale. Si ha oggi l’impressione che sia andato perduto tutto quel che di culturalmente valido c’era nel conservatorismo italiano del Novecento. Questo ha infatti assunto due principali direttrici ideologiche, legate a due diversi ventenni: la prima è quella meramente nostalgica, la seconda è quella berlusconiana. In entrambi i casi appare chiaro che la destra italiana è irrinunciabilmente legata al culto delle personalità di Mussolini e Berlusconi. L’unica eccezione, che ci saremmo volentieri risparmiati, è la destra leghista, ovvero un minestrone di xenofobia, regionalismo ed ignoranza. Eppure, fu quando lessi "Tecnica del colpo di Stato" (1931) di Curzio Malaparte (1898-1957) che capii che la destra era soprattutto qualcosa di rivoluzionario, non di reazionario o conservatore, e fu allora che smisi di definirmi uomo di destra.

Curzio Malaparte (2011), Tecnica del colpo di Stato, a cura di G. Pinotti, Adelphi, Milano, pp. 270

lunedì 10 agosto 2015

"Lo Zen e il tiro con l'arco"


C’è attorno a noi una grande bugia, quella dell’atto e dell’azione, e di conseguenza quella del fatto e del mis-fatto. L’atto sconfessa sempre l’intento programmatico dell’azione, tanto che vengono a collimare finché l’attore - che proviene da agere (perorare) e non c’entra niente col re-citare (citare la cosa) - diventa egli stesso l’atto. Chi si approccia al taoismo e, più in generale, alle filosofie orientali, noterà la medesima assenza di oggettivazione con l’esistenzialismo, dove l’unica differenza sta semmai nel giudizio morale tra il nirvana e il sovrauomo. Ne "Lo Zen e il tiro con l'arco" (1948) di Eugen Herrigel (1884-1955), questo professore tedesco di filosofia prende lezioni di tiro con l’arco da un maestro Zen, fino a smascherare la menzogna della volontà, fino ad esser lui l’arco, fino a diventarne la freccia, fino ad esser egli stesso il bersaglio. Fino a non esser più lui. Proprio come sosteneva Arnold Schönberg (1874-1951), padre della dodecafonia, quando affermava: «Ich bin nur das Sprachrohr einer Idee» (Sono solo l’altoparlante di un’idea); come Demetrio Stratos (1945-1979), leader degli Area, che cantava la voce nelle sue diplofonie e triplofonie; come san Giuseppe da Copertino che oltrepassava la santità fino a misconoscerla; come Bacon e Pollock che dipingevano la pittura pur di non dipingere. Tra tutti coloro che vanno oltre se stessi nell’interesse dell’arte, Carmelo Bene (1937-2002), al pari del professor Herrigel, oltrepassò i dogmi dell’esistenza e apparve alla Madonna, la figura che in mariologia è per definizione advocata ancor prima che assumpta. In quel capolavoro della cinematografia italiana che è "Nostra Signora dei Turchi" (1968) l’impossibilità di agire è ben rappresentata da un Bene impacciato, istupidito, inconscio. Un santo autobeatificatosi che si rinnega sempre, si morde la coda ed infine impazzisce meritatamente. Cito: «I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione».

Eugen Herrigel (1975), Lo Zen e il tiro con l’arco, trad. di G. Bemporad, Adelphi, Milano, pp. 100

venerdì 7 agosto 2015

"Il pendolo di Foucault"


Ho letto "Il pendolo di Foucault" di Umberto Eco (1932) e l’approccio filosofico del grande semiologo alessandrino bene s’inserisce nel dialogo teologico contemporaneo sull’esistenza di Dio. Penserete che contemporaneo sia un aggettivo che mal s’addice a un dibattito del genere ma siccome è nei fatti, dunque non ancora concluso, non possiamo utilizzare il termine moderno, che implica il passaggio ad una nuova epoca. Torniamo a noi. Dalla lettura del succitato libro, mi ha colpito l’unicità del punto che sostiene il pendolo, che per chi non lo sapesse rappresenta il nucleo della teoria pubblicata nel 1851 dal fisico francese Jean Bernard Léon Foucault (1819-1868) e messa in pratica nel celebre esperimento che vede un enorme pendolo abbattere dodici birilli posizionati a terra in cerchio, dimostrando definitivamente la rotazione della Terra. La grandezza dell’esperimento di Foucault non risiede tanto nella prova pratica, di per sé sbalorditiva, quanto nel fatto che il pendolo, altissimo per rendere nullo l’attrito dell’aria - assieme a dei magneti -, sia fissato al soffitto con un perno, producendo conseguentemente un dilemma pernicioso: se il pendolo dimostra la rotazione della Terra allora anche il punto al quale è agganciato ruota. Per uno che non è fisico né matematico, né tantomeno filosofo, questo potrebbe essere l’ennesimo rompicapo dell’uovo e della gallina, o del treno e del viandante (è tutta una questione di punti di riferimento, come sempre), ma i rompicapi non mi piacciono e ciò che conta sta in quell’unico punto fisso. Il motivo di tanta stupida e stupita curiosità è perlopiù spirituale; e per entrare nel mondo della spiritualità non servono lauree o dottorati, ma bisogna semplicemente liberarsi dei postulati, delle teorie e della logica raziocinante, per indirizzarsi verticalmente sulla propria esistenza ed essenza. Se assumiamo il pendolo di Foucault come l’esperimento che più di tutti prova la rotazione terrestre, prendiamo coscienza del fatto che tutti noi - ora come sempre, qui come ovunque - ci stiamo muovendo, e con noi l’intero firmamento. Invece quel punto è fermo, esso è l’unico punto fermo in tutto l’universo, è il motore immobile. La tanto agognata fonte di tutte le cose è a portata di naso, ad alcuni metri dal visitatore, in linea retta, verso l’alto, come sempre si è letto nei libri sacri e creduto nelle liturgie. Eppure il punto di quel pendolo non è l’unico, perché di pendoli sferici ce ne sono diversi nel mondo: ad esempio, io lo conobbi al Museo de las Cièncias di Valencia. Ad un livello spirituale ancor più elevato scopriamo dunque che quel punto fermo nell’universo può essere qualsiasi punto intorno a noi, possiamo essere noi. Le prove dell’inesistenza di Dio hanno sempre pagato lo scotto di cercare Dio fuori, altrove, sopra, al di là. La Chiesa, dal canto suo, L’ha sempre indagato nella Sua veste ora rituale e formale, ora grottesca e anatomica, a partire dalla dissezione dei santi. La teoria del pendolo invece sconfessa l’ateismo e conferma che il Demiurgo è ovunque. Il pensiero di Dio, al pari della rotazione terrestre, dunque, esiste: cogito ergo Deus est.

Umberto Eco (1988), Il pendolo di Foucault, Bompiani, Milano, pp. 509

giovedì 6 agosto 2015

"Vite di Paolo, Ilarione e Malco"


Agli albori del cristianesimo tre eremiti d’oriente, Paolo, Ilarione e Malco, hanno vissuto Dio con esasperante misticismo, leggenda e totale distaccamento dalle passioni terrene. Terminato il Medioevo, in pieno Seicento, troviamo invece Giuseppe da Copertino (1603-1663), vero anticipatore di quella estetica dell’oltre che tanto fortemente sta segnando l’epoca nostra. Il religioso visse una mistica profondissima che lo portò all’estasi ripetute volte; cominciò con la levitazione e giunse a compiere voli, tanto da meritarsi il patronato degli aviatori. Ma Giuseppe è anche qualcosa di più. Al di là della mera prestidigitazione religiosa, il santo venerò e fu venerato in modo fanatico. La sua adorazione per la Madonna lo spinse a desiderare così tanto una Sua icona per il convento in cui viveva che quando la ebbe tra le mani la distrusse, consapevole ormai che venerava più il feticcio che non la Madonna stessa. Esempio, dunque, di grande rigore religioso, ma anche di gretta iconoclastia. Alla sua morte, d’altronde, il corpo venne subdolamente esposto al pubblico e la calca giunta in cattedrale per vederlo o toccarlo fu tale che scoppiò un incendio, tanto che quel ludibrio funebre si trasformò in una carneficina umana: il contenitore terreno di Giuseppe da Copertino si salvò miracolosamente eccetto un dito e il cuore, asportati da qualche fanatico di reliquie. La sua intera parabola è quindi da ascrivere pienamente alla fenomenologia religiosa, ma in essa si trovano alcune importanti similitudini con l’esaltazione dei simulacri odierni, siano essi rockstar, opere d’arte, religioni e ideologie, informazioni in broadcasting. Non v’è forse lo stesso fanatismo iconoclasta dietro le morti di Michael Jackson, Amy Winehouse o Whitney Houston? Non v’è forse quella stessa ferrea e ostinata e medievale credenza nelle notizie provenienti da internet? Non v’è forse la stessa feroce bestialità dietro gli scempi mediatici di Novi Ligure, Cogne, Avetrana o Garlasco? Non v’è forse lo stesso fanatismo vecchio di millenni dietro gli attacchi kamizake e le disumanità dell’ISIS? Da come la storia sembri ripetersi e con quale sorprendente periodicità, si potrebbe giungere alla conclusione che la storia stessa nemmeno esista. E allora bisognerebbe capire che è la materia umana a reiterarsi nel tempo, simile a se stessa dai secoli dei secoli, da (per) sempre. Giuseppe da Copertino non ebbe mai l’accortezza di distinguere il falso dal vero, per via della sua mistica cristallina, in un’epoca in cui il figlio del contadino era contadino e quello del conte, per sillogismo, conte. Figuriamoci poi se Dio non manteneva le promesse e non concretizzava le minacce iscritte nei libri sacri! Oggi, abbandonata l’irrazionalità tipica dei monoteismi, come i tre monaci raccontati da san Girolamo - che non si lasciavano tentare dalle meretrici - si dovrebbero riportare il gusto e l’estetica ad Eros, piuttosto che proseguire sulla strada del porno. Se la misura delle cose non verrà ricercata alla svelta sarà legittimo pensare che questa civiltà, la nostra, sia davvero giunta all’ultima stazione.

San Girolamo (1975), Vite di Paolo, Ilarione e Malco, trad. di G. Lanata, Adelphi, Milano, pp. 146

mercoledì 5 agosto 2015

"Dieci"


Uno dei punti più trasversali dell’Antico Testamento è quello riguardante i dieci comandamenti. Cristiani ed ebrei, atei ed agnostici, teologi ed esegeti, anticlericali ed anarchici, ognuno ha trovato qualcosa da imparare, secondo una propria interpretazione, dalla storia delle tavole della legge dettate direttamente da Dio a Mosè sul monte Sinai. Una delle esposizioni più affascinanti mi è sempre parsa quella di Fabrizio De André (1940-1999) nella celebre "Il testamento di Tito" (1970) dove il cantautore genovese dà voce al ladrone Dismas che, condividendo l’agonia con Nostro Signore, dichiara di aver trasgredito tutti i comandamenti divini senza tuttavia aver mai procurato dolore. Il brano deandreiano si conclude così: «Io nel vedere quest’uomo che muore, / madre, io provo dolore. / Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho imparato l’amore». Se nella versione biblica i comandamenti sono utilizzati come regola minima per la società, in quella di De André le dieci leggi hanno un esito di redenzione e lasciano trasparire la speranza di una qualche salvezza per il malfattore di turno. Ora abbiamo anche quella di Andrej Longo, scrittore ischitano classe '59, che in "Dieci" romanza altrettante storie di vita quotidiana nella Napoli odierna: su tutte regnano incontrastati il crimine, la miseria, l’illegalità, il vizio, la prevaricazione, il misfatto. L’esegesi laica di Longo è, ahimé, priva di salvazione. I suoi personaggi sguazzano nella malavita e, se pure tentano di sfuggire al destino criminoso, ne vengono prima o poi risucchiati dentro: il giovanotto per difendere la fidanzata, il cantante neomelodico per aver sognato troppo, il ragazzino per concludere l’agonia della mamma, il cameriere disgraziato che non si decide mai, e poi il ladruncolo, il boss di quartiere o la ragazza che va ad abortire. Tutta un’umanità che fa i conti con i propri problemi e con l’ambiente in cui vive, ma soprattutto col prossimo che, a quanto pare, è lontano anni luce dalle formule che le religioni del mondo hanno cercato di far valere. Un'umanità che sembra davvero un unico enorme cumulo di monnezza, un letamaio dal quale - De André ci scuserà - non fiorisce un bel niente.

Andrej Longo (2007), Dieci, Adelphi, Milano, pp. 144

lunedì 3 agosto 2015

"L'eredità di Eszter" e "Il gabbiano"


Lo stile è il distintivo di ogni artista. Esso è la forma che ricopre il contenuto. Più rare volte ne è il contenuto stesso, come se l’eleganza del tratto, l’istinto del gesto, l’artigianalità del vestito fossero imprescindibili dall’autore che, all’infuori dello stile, non potrebbe e non riuscirebbe a vivere e lavorare. Quello di Sándor Márai (1900-1989) è peculiare a lui solo, nella delicatezza delle forme letterarie e delle tematiche affrontate. Le trame che predilige prendono sempre il largo da un lungo dialogo fra due protagonisti per poi snodarsi attraverso ricordi, reperti, ritorni e speranze, spesso disilluse dalla velocità e caducità del quotidiano. Nei libri qui recensiti abbiamo due vecchi amori ritrovati, entrambi non corrisposti o corrisposti a metà. Il primo, quello della sensibile Eszter per Lajos, un irresistibile millantatore che ha ridotto in miseria la famiglia della donna e che torna per prendersi quel poco che resta; l’altro, quello di un alto consigliere di stato, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, per la finlandese Aino, che gli fa tornare alla mente Ilona, il grande amore, morta suicida anni addietro. "L’eredità di Eszter" (1939) è un romanzo meraviglioso, soave, indipendente, un gioiellino che va posto sul medesimo ripiano dei grandi classici maraiani, tra la perfezione di "Divorzio a Buda" (Adelphi, 2002) e la magnificenza de "Le braci" (Adelphi, 1998); "Il gabbiano" (1948), certamente meno brillante, si pone come romanzo minore, forse perché troppo surreale, una sorta di esercizio di defaticamento dopo i migliori anni della produzione di capolavori. L’estetica borghese di Márai, nitida ed indiscutibile, avvolge il lettore nelle spire di amori che non sembrava potessero aver ostacoli di fronte a sé, e che invece non sono mai esplosi nel firmamento dei grandi sentimenti: Eszter che rinuncia a Lajos per questioni familiari e il severo consigliere di stato che si scioglie di fronte ai rimasugli di un antico inglorioso amore. Dicevamo in apertura che lo stile è spesso la sostanza dell’artista, che ne rappresenta l’esistenza stessa. Cosa dire allora di Sándor Márai, l’esule ungherese che, dopo aver scritto pagine indimenticabili, oramai invecchiato, all’indomani della morte dell’amata moglie, finirà suicida con un colpo di pistola? È forse questo l’elemento probante che gli conferisce il carattere di uomo autentico, di grande, integro e sontuoso stile.

Sándor Márai (1999), L’eredità di Eszter, trad. di G. Bonetti, Adelphi, Milano, pp. 137
Sándor Márai (2011), Il gabbiano, trad. di L. Sgarioto, Adelphi, Milano, pp. 163